15 Ottobre 2023
27esimaora.corriere.it

Lo sciopero delle bambine sfruttate e sottopagate: storia delle «piscinine»

di Jessica Chia


Sono piccole, alcune hanno ancora i denti da latte. Altre, invece, hanno le prime forme sul petto. Sono bambine fra i sei e i diciassette anni, che si accalcano davanti alla Camera del lavoro, a Milano. Urlano, sono senza i loro genitori; consegnano volantini con su scritto: «Mi son la piscinina, mica la schiava». Alzano la voce, per la prima volta in vita loro: «Sciopero! Sciopero!». Quelle bambine stanno segnando la storia dei diritti nel lavoro minorile e femminile in Italia. È il 1902 e le «piscinine» – questo il loro nome in dialetto – sono apprendiste sarte, modiste, corriere, che consegnano a piedi, in tutta la città, grossi pacchi con vestiti realizzati su misura dagli opifici tessili e dalle botteghe sartoriali. Sono al servizio delle «maestre», che non le retribuiscono e non insegnano loro il mestiere. E oltre ai soprusi salariali, sono costrette a subirne di peggiori, in silenzio, perché nessuno crede loro: le molestie e le violenze sessuali praticate dai mariti, e dagli uomini di casa, delle loro «maestre».

Tra loro c’è anche Nora, quindici anni, balbuziente, povera, quasi analfabeta e insicura. Ma con una forza sconosciuta nascosta dentro lei, e di cui ancora non conosce il potenziale. Ispirata al quadro La piscinina di Emilio Longoni (1859-1932) del 1891, la ragazza è la protagonista del nuovo romanzo di Silvia Montemurro, La piccinina, appena uscito per edizioni e/o (pp. 192, 16,50 euro), che unisce la storia di quegli straordinari fatti storici alla vita personale, difficile, della piccola Nora: le prime amicizie, la scoperta dell’amore e del proprio corpo, le dinamiche violente delle famiglie in quegli anni. Fino al confronto con la dura e spietata realtà che vivono le bambine di quell’epoca.

Scriveva La Domenica del Corriere sui quei tumulti: «Le piscinine domandano: un salario minimo di 50 centesimi, riduzione di orario, non essere adibite a lavori di famiglia e non portar lo scatolone; doppia paga alle domeniche e compenso proporzionato per ore straordinarie di lavoro. […] La grande sala della Camera del lavoro, invecchiata fra le adunanze di tutti i generi, non ricorderà certo d’aver mai veduto fra le sue pareti nulla di simile a quanto vi si è svolto ieri. Una nidiata di bambine – saranno state un centinaio – sedute in buon ordine, contornavano il palco delle Commissioni. Un cinguettio di voci infantili, allegro e irrequieto echeggiava fra le nere muraglie, sotto al lucernario polveroso, che finora avevano rimbombato delle grida minacciose di tumultuose assemblee operaie».

L’evento, infatti, non sconvolge solo i giornalisti dell’epoca: si sconvolgono le «maestre», che le seguono nei loro cortei, insultandole. Si sconvolgono gli uomini delle loro famiglie, che si sentono «insultati», provano la vergogna del disonore per queste figlie ribelli che non sanno stare al loro posto. E questo avviene anche nella famiglia di Nora. Ma lei si ispira agli insegnamenti di suo padre, morto nelle lotte delle Cinque giornate di Milano: «Il papà mi ha insegnato che le grandi lotte per i diritti partono sempre dalle rivolte del popolo. Quindi anche noi ci potevamo ribellare». E nonostante la balbuzie, lei cammina fiera, di fronte alla folla che si prende gioco di loro, fino alla Camera del lavoro, per consegnare i desiderata delle scioperanti: «“Boicottare” diceva (suo padre, ndr), scandendo bene le parole, “imparalo anche tu, Nora, cosa vuol dire. Che magari un giorno ti servirà. Una parola preziosa”».

A casa la vita non è facile: i suoi fratelli sono i primi che la insultano per via degli scioperi (le dicono che «i giornali scrivono delle piscinine, “le zabette che vanno in giro a fare lo sciopero”, come gli uomini» insiste lui. «Ci fai vergognare, tutti quanti»). E lei vive, senza amore familiare, nella perpetua insicurezza della sua balbuzie: non riesce a esprimersi, è lo zimbello di tutti. Ma quelli sono anche gli anni in cui Nora scopre le amicizie, come l’Angelica e la Lisa. Soprattutto la Lisa: così bella, in grado di parlare senza balbettare, dolce e composta. C’è poi l’Emilio, il suo amico pittore adulto, figura di riferimento per Nora. E infine l’Achille, il ragazzo di cui si innamora come solo a 15 anni ci si può innamorare: perdutamente e dolorosamente. Ma l’amicizia di questo trio di ragazzini è destinata a finire quando si troveranno ad affrontare un evento troppo grande per quelle piccole donne dal viso di bambine: l’aborto clandestino che quasi ucciderà una di loro.

«Mi avevano anche inculcato nella testa che ci fosse una sorta di potere nascosto, nel genere maschile, per cui noi donne dovevamo stare all’erta o saremmo finite abbandonate e rinnegate per via di uno sciocco errore di calcolo». Nora impara molto presto che la vita per le femmine è disseminata di dolori e ingiustizie: gli uomini possono farne quello che vogliono di una bambina povera, tanto la «vergogna» rimarrà attaccata solo addosso a lei, per tutta la vita. Ed è quello che lei subirà proprio sul luogo di lavoro; quel luogo per il quale avevano chiesto maggiori tutele e più dignità.

Attraverso gli occhi di Nora, Silvia Montemurro racconta una storia che è soprattutto una storia delle donne: dalle lotte collettive, alla loro figura marginale – di fatiche domestiche e «allevatrici» di figli – nelle famiglie, ai tentativi di emancipazione di quelle nate nelle classi più povere, per non rimanere «zitelle». Le descrive – con una prosa piacevole che, in prima persona, ricalca la voce della quindicenne Nora e il suo guardo di scoperta sulla vita – in un mondo ancora di dominazione maschile, dove la violenza è pane quotidiano e bisogna imparare a sopravvivere fin da piccole. Come fanno le piccinine, per cui il loro coraggio ha rappresentato un enorme passo in avanti nella storia dei diritti: «…diverranno lavoratrici oneste, combatteranno cento altre battaglie con la convinzione profonda di una verità appresa da bambine, molte diverranno madri; i loro figli certo non saranno crumiri. Su, camminate, bambine!» (Avanti!, giugno 1902).


(27esimaora.corriere.it, 15 ottobre 2023)

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