16 Giugno 2016

Madri e figlie in poesia: La tesa fune rossa dell’amore

di Luciana Tavernini

Proponiamo la relazione introduttiva per l’incontro Madri e figlie in poesia, tenutosi al Circolo della rosa sabato 11 giugno 2016, con Loredana Magazzeni, Donatella Massara, Laura Modini e Cristina Salardi.

Alla fine dello scorso anno, appena mi fu segnalato da Clara Jourdan, comprai il libro a cura di Loredana Magazzeni, Fiorenza Mormile, Brenda Porster, Anna Maria Robustelli, La tesa fune rossa dell’amore. Madri e figlie nella poesia contemporanea di lingua inglese (La vita felice, 2015). Il titolo, tratto da una poesia di Gillian Clarke, già preannunciava che le parole per mostrare la relazione madre figlia non sarebbero state edulcorate. Il libro è composto da 60 poesie di autrici in lingua inglese, con traduzione a fronte, e da una prefazione di Silvia Vegetti Finzi e una postfazione di Anna Salvo, che ne offrono un approfondimento psicoanalitico.

Ho sorseggiato le poesie poco alla volta come un vino da meditazione perché molte di loro attraverso le combinazioni improvvise delle parole, i loro suoni, le immagini impreviste, generavano inaspettate emozioni che aprivano spiragli di conoscenza su quest’esperienza che è centrale per me e per molte donne.

Nella pratica della storia vivente che, a partire da un’invenzione di Marirì Martinengo, porto avanti da quasi dieci anni con una comunità di donne, la relazione con la madre continua ad emergere (DWF, n.3, 2012). Non è un caso che abbia voluto con Marina Santini intitolare il libro di storia del femminismo, da noi scritto e curato, Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua. E certamente questa raccolta di poesie composte negli ultimi 40 anni da autrici di lingua inglese e il lavoro di gruppo delle quattro poetesse traduttrici, non sarebbe stato possibile senza la rivoluzione femminista. Le donne che hanno preso parola pubblica autorevole hanno portato alla luce questa relazione fondante l’esistenza umana che prima veniva ridotta a sola materialità, data per scontata, mettendo invece in particolare evidenza la relazione col padre o quella madre – figlio, piena di rappresentazioni anche nella storia dell’arte, soprattutto cristiana.

Ricordo come Luce Irigaray nel 1987 ci invitasse a esporre in tutte le case e in tutti i luoghi pubblici belle immagini (non pubblicitarie) della coppia madre figlia, nostre fotografie con la figlia e le figlie e magari anche con la nostra stessa madre.

Sempre più scrittrici e poetesse portano alla luce coi loro lavori questa relazione. Segnalo in particolare Costellazione familiare (Adelphi 2016) di Rosa Matteucci con abbiamo discusso, il 28 maggio, nell’incontro, promosso da Rosaria Guacci e Mirella Maifreda, e per la poesia italiana accenno soltanto a Maddalena Capalbi in alcuni testi della raccolta Nessuno sa quando il lupo sbrana (La vita felice 2011), a Vivian Lamarque con il libro Madre d’inverno (Mondadori 2016), un lavoro di elaborazione poetica sulla morte e malattia della madre, e soprattutto le intense poesie di Gabriella Lazzerini in Tutto per me l’oceano, pubblicate in un quaderno di Via Dogana (Libreria delle donne di Milano 2004), ormai esaurito.

Attraverso la raccolta di cui parliamo oggi abbiamo l’occasione di approfondire la riflessione e di scegliere, anche per donarle alle nostre madri e figlie, quelle parole che più ci rappresentano.

Ma soprattutto, come suggeriva Ida Dominijanni (L’ombra della madre, Liguori 2007), ripresa nell’invito alla lezione di Luisa Muraro di martedì 7 giugno, queste poesie ci permettono “di scorgere nel presente i segni di quello che è e che sarà la madre dopo il patriarcato, nelle sue luci e nelle sue ombre, nel chiaro e nell’oscuro che la circondano”. Un impegno di grande rilevanza politica per il senso di ciò che costituisce l’essere umano, come ci dice Luisa Muraro nel suo recente libro L’anima del corpo (Editrice La Scuola 2016), la cui seconda parte, che costituisce metà del libro, è intitolata appunto La relazione materna.

L’atteggiamento di chi fa poesia, come magistralmente ci insegna María Zambrano in Filosofia e poesia (Pendragon, Bologna 2002) è di rendere conto della verità mentre la si sta vivendo, di far esistere ciò che ancora non è, perché le parole, il simbolico, ancora non è stato in grado di mostrarlo. Le poetesse, qui raccolte, ci permettono di rivivere l’istante, in cui più tempi coesistono, che illumina l’esperienza viva di ciascuna attraverso le parole che mantengono la forza della loro materialità.

Leggere queste poesie è un’esperienza contemporaneamente fisica e mentale che non va fatta frettolosamente.

Il lavoro delle traduttrici è stato anche questo: assaporare le parole per renderle nella nostra lingua, lasciandoci però la possibilità di andare al testo inglese originario in un passaggio in cui il ritmo segreto che lega le parole ci permette una conoscenza che non separa la percezione dalla razionalità.

Le quattro poetesse traduttrici hanno condiviso e ci propongono un percorso, illustrato nella loro introduzione, pieno di spunti per segnalare alcune caratteristiche e alcuni nodi dell’intricato e necessario rapporto madre figlia: dal difficile equilibrio tra fusionalità e separazione alla memoria che restituisce vividi ritratti o fantasmi e proiezioni, al complesso intreccio tra resistenze e accettazione dell’essere madre, alla costituzione di lignaggi attraverso oggetti e linguaggi, e non solo. Ma, grazie alla polisemia, alla molteplicità di significati di un testo poetico che si dischiudono alle successive letture, abbiamo l’opportunità di crearci percorsi personali.

In questo periodo di dibattito sulla maternità surrogata, addirittura chiamata utero in affitto, come se si potesse fare a pezzi una donna, io ho trovato consonanza con alcune poetesse che mostrano la relazione tra madre e creatura anche prima della nascita, ricordandoci il due che precede l’uno in ciascuna esistenza: ce la fanno percepire o ricordare per chi, come me, l’ha sperimentata. Penso a Sujata Bhat e a At first she was a butterfly (All’inizio era una farfalla, p.107) che termina con questi versi:
Ma io mi tengo stretto il primo giorno

che la sentii muoversi,

una piccola farfalla che toccava un fiore dopo l’altro –

Oppure penso a Meena Alexander che nella prima strofa di Green Parasol (Ombrellino verde, p.45) dice:

Dolce bocciolo di carne e capelli

quattordici anni fa mi lacerasti in un lampo

ti attaccarono paonazza, urlante al mio seno sinistro.

Più tardi, ti sistemavo ancora affamata

tra gomito e polso.

Sognavo di te e di me, costola a costola

nel cesellato scrigno d’avorio

che la tua bisnonna

si era portata a nord oltre le colline rosse

come parte della sua dote nuziale.

Meena introduce, attraverso un oggetto, anche il “continuum materno” con cui Maxime Kumin nella poesia The evelope (La busta, p. 237), polemizza con Heidegger, perché a noi è dato portare “avanti le nostre madri nella pancia”, e, “portate avanti dalle nostre figlie, viaggiare /nella Busta del Quasi- Infinito”.

Arundhati Subramaniam nell’ultima strofa di Sewage psalm (Salmo ai liquami, p. 113) ci pone in evidenza il mistero dell’imprescindibile sì della madre.

E ancora mi rimane un mistero

come avrai permesso che una fragile bolla

di infida speranza, in technicolor,

esplodesse

nello schiamazzo fiammeggiante,

di una nuova vita

con la tua decisione terrificante

di lasciar cadere

la scelta della disperazione.

Più leggo queste poesie e più ne ricavo forza che libera capacità di agire con libertà, che scioglie legacci emotivi. Invito ciascuna a cimentarsi.

Vi propongo però un ultimo spunto.

Quando Marina Santini e io studiammo Cristina di Belgiojoso per un incontro nel 2004, promosso dall’Associazione Dialogare di Lugano nell’ambito del pluriennale corso di formazione Pensare il mondo con le donne (Atti 2007), individuammo nel rapporto, durato tutta la vita, tra Cristina e Ernesta Bisi Legnani, maggiore di lei di vent’anni, pittrice, patriota, madre di 5 figlie e figli, un esempio di “amica più grande”, quella che in continuità con la madre permette a una giovane di crescere, discutendo emozioni ed esperienze coinvolgenti in una sorta di genealogia in presenza. Volevamo chiamare questa figura “vice-madre” ma mia figlia, che sperimentava questo tipo di relazione, ci disse che era un errore perché la madre è unica. Noi descrivemmo questo rapporto dal punto di vista della madre e della figlia, ma la pedagogista Letizia Bianchi, chiamandola “posizione della zia”, ne parlò dal punto di vista dell’amica. Marina e io siamo consapevoli di quanto sia importante tanto che ne abbiamo scritto in Mia madre femminista e abbiamo chiesto a Letizia una testimonianza in proposito.

Nel quasi poemetto, One of those nigths (Una di quelle notti, p.123) di Karen Alkaly Gut ho scoperto che la figura simbolica della “zia” è indispensabile anche dopo la morte della madre.

Una zia, morta prima che la poetessa nascesse, viene come fantasma nell’anniversario della morte della madre per portare un messaggio della madre stessa.

La zia a un certo punto dice:

“Perché devi andare a cercare ciò che è irrilevante?

Lei mi ha detto che vuoi sempre la documentazione.

Quello che devi sapere –

e mi sembra la notizia più importante

che ti posso portare dall’aldilà –

è che tua madre ti amava veramente.”

Non pensate che sia un poemetto di buoni sentimenti perché

la figlia battibecca: perché non è venuta lei a dirmelo, io “sto bene in questa luce”, lo so che è una fantasia consolatoria, ecc.

Ma la zia fantasma la mette di fronte alla naches, alla gioia, della madre nell’aldilà, dicendole:

[…] che tua madre prova piacere ogni giorno

vedendo come ti godi la vita – anche se la tua è una vita

che non avrebbe mai capito quando portava il peso

del suo mondo, della sua vita.

La zia, con i rovesciamenti tipici della poesia, mette di fronte la figlia all’esistenza della vita della madre come diversa dalla sua, qualcosa che può rendere difficile la comprensione. Spesso non riusciamo a pensare a nostra madre come a una donna. Accade quasi come una rivelazione, ad esempio Luisa Muraro in L’anima del corpo scrive: “Ricordo il momento in cui mi accorsi e vidi che mia madre era una donna, che mi era madre sì, ma senza essersi annullata nel personaggio con cui fino ad allora l’avevo identificata” (p.65). E racconta gli episodi di questa epifania in cui la madre le appare portatrice di un desiderio autonomo.

E tornando al poemetto, esso termina con la capacità di accettare le proprie imperfezioni, che, anche se viste dalla madre, non ne inficiano l’amore.

E mi ha detto di dirti

che le piace tanto come leggi la poesia ad alta voce –

anche se balbetti ancora

e ci metti sempre un paio di errori.

 

(www.libreriadelledonne.it, 16 giugno 2016)

Print Friendly, PDF & Email