di Franca Fortunato
Fare i conti con la storia della propria madre e con la relazione con lei, cercando di sciogliere alcuni nodi dolorosi che si porta dentro dall’infanzia e dall’adolescenza, è quello che fa la giovane scrittrice italo-nigeriana Sabrina Efionayi con il suo libro autobiografico Addio, a domani edito da Einaudi. Scrive per raccontare per la prima volta della madre, di cui non aveva mai parlato a nessuno perché si vergognava di lei. Durante la scrittura si accorge di non riuscire a parlare in prima persona e dire “io” ma dice: lei-Sabrina, tale è il dolore. Parla con la madre e le ricorda episodi della loro vita insieme, le confessa sensazioni e sentimenti non detti, le dice quello che ha capito da figlia della sua storia e di sé stessa. Non lo fa con acredine o risentimento ma con gratitudine e comprensione. La storia di Gladys, la madre, è uguale a quella di tante giovani africane. Nigeriana, figlia di una famiglia povera, ha diciotto anni quando una donna si presenta al suo villaggio e se la porta via con la promessa di un lavoro “vero” e invece la prostituisce e la lega a sé con un debito che sembra non estinguersi mai. La figlia non la biasima per aver creduto che avrebbe «trovato un lavoro vero che non avesse lo scopo» di umiliarla e denigrarla. Le riconosce di aver «sempre lottato» per la sua dignità e «fino alle lacrime e al sangue per restare viva» e capisce che non avevano niente di cui vergognarsi, la madre era solo una vittima. Le confessa che quando a undici anni le ha raccontato la sua storia senza mai usare la parola “prostituzione” ma “sofferenze”, si è sentita “sporca” e ha temuto che un giorno sarebbe toccato anche a lei perché una volta ha sentito una persona dire che «tutte le nere fanno così perché a loro piace». Nata dall’amore per un ragazzo nigeriano da cui la madre si era sentita rispettata e amata e che scompare dopo la sua nascita, viene affidata dalla madre alla vicina di casa, Antonietta, che vive con la famiglia del fratello. «Libero mia figlia», le dice. Col tempo le due donne comprendono che «della bambina avrebbero potuto occuparsene insieme», in un rapporto di fiducia e gratitudine reciproca. Di questo Sabrina è grata a entrambe. Non si è mai sentita una bambina abbandonata e quando diceva di essere adottata la madre la riprendeva dicendole: «No, non dire così. Tu non sei adottata. È vero che hai due mamme, ma non sei una bambina adottata». Sabrina le confessa che a quel punto non aveva più le parole per dirsi. «Avevi detto che non dovevo dire di essere adottata, e allora le parole hanno iniziato a mancarmi. Non le avevo le parole giuste e tu non me le hai date». Di una cosa è sicura, dell’amore di entrambe le mamme e del suo per loro. Quando la madre si libera dalla prostituzione e si trasferisce a Firenze, chiede solo che sua figlia passi con lei i mesi estivi. Ogni volta chiede fiducia ad Antonietta che teme non gliela riporti più. Anche Sabrina lo teme, ma non lo dice. La porta più volte in Nigeria e lì la figlia sente l’appartenenza a quella identità a lungo rinnegata, «come qualcosa di cui vergognarsi». Ma, se in Nigeria le veniva detto che era «troppo italiana» per i suoi comportamenti, in Italia le veniva detto «di non esserlo abbastanza» per il colore della pelle. Alle medie scopre «di essere nera, nera davvero» e crescendo comprende con dolore cosa vuol dire non avere la cittadinanza italiana. Al primo anno di università si deve iscrivere come studentessa extracomunitaria. A un certo punto si ribella alla madre, si allontana da lei, tornata in Nigeria, sposatasi e divenuta madre di una bambina. La incontra un’ultima volta e non riesce «a dare un nome» a ciò che prova. Ha bisogno di tempo per capire (capirsi). Nell’attesa le dice addio, a domani.
(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 11 novembre 2023)