29 Luglio 2020
il manifesto

Márcia Tiburi, la creazione di alleanze è l’antidoto contro violenza e oppressione

di Francesca Maffioli


L’intervista. Parla la filosofa e artista brasiliana, che a causa di persecuzioni e minacce, ha dovuto lasciare il Paese governato da Bolsonaro per vivere a Parigi, in occasione del suo volume Il contrario della solitudine (effequ). «Penso al femminismo nel senso del suo potere trasformativo e non solo come una critica al patriarcato. È una promessa di felicità e di un mondo migliore a venire».


«La storia delle donne potrebbe essere raccontata come storia delle vittime, anche se non possiamo strategicamente metterci in questa posizione quando si tratta di pensare alla forma e alla potenza della lotta». Sono parole di Márcia Tiburi, filosofa e artista brasiliana. Da domani sarà disponibile la prima traduzione italiana del suo Feminismo em comum: para todas, todes e todos, a opera di Eloisa del Giudiceper la casa editrice effequ. Il contrario della solitudine (pp. 120, euro 15), tiene insieme l’idea che il femminismo sia istanza dialogica e plurale, portatrice di alleanze tra donne che, secondo l’autrice, nascono sotto il sillage del «dolore politico» causato dalla violenza del potere.

Alleanze di «dolorità» in ordine alla definizione di Vilma Pietade, per cui la «sororità» si articola insieme al dolore inserendosi in uno spazio politico che è anche uno spazio di parola personale e condivisa.

I dolori fondativi di cui parla Márcia Tiburi, pur nella coscienza politica di quanto radicata sia nel patriarcato la volontà di ferire e sottomettere, non restano tuttavia allo stadio di constatazione del destino storico delle donne in quanto vittime. «Per questo – dice Tiburi – il movimento femminista è anche una lotta contro la violenza esercitata nell’intento di distruggere le donne quando si trovano nella posizione di indesiderabili al sistema, vale a dire quando non servono sessualmente, maternamente o sensualmente, quando non producono, non consumano e anche quando criticano questo stato ingiusto».

All’importanza della radicalità della lotta, intesa come la serie di pratiche esercitate da quei corpi che non sono considerati dominanti, fanno allusione sia Igiaba Scego nella prefazione sia Antonia Caruso nella postfazione. La radicalità si esplicita secondo Tiburi nella scelta non scontata di condurre la lotta vegliando agli abbagli seduttivi insiti al contesto capitalistico, dove dimorano con agio dominazioni, sfruttamenti, oppressioni e violenze.

Nel suo libro ripete a più riprese che il femminismo è una teoria critica non solo plurale, ma «eminentemente potenziale». Cosa intende?

Penso sempre al femminismo nel senso del potere trasformativo e non solo come una critica al patriarcato, cosa che è senza dubbio. A mio parere, questo potere si costruisce a partire dalle interazioni, dai processi tra le persone e anche dalle istituzioni. Questi processi si riferiscono a potenziali dialoghi che possono essere concretizzati. Il femminismo è un grande e profondo dialogo tra le donne, un dialogo che è stato storicamente impedito dal patriarcato.

In generale, la mia intera concezione della filosofia si basa sulla nozione di dialogo, che non è una semplice conversazione. I dialoghi coinvolgono processi di pensiero e fluiscono oltre i discorsi. Con questo intendo dire che il femminismo non fa sempre rumore, ma che si è costruito socialmente in un modo molto più profondo. In questo senso, il femminismo è la filosofia del presente e del futuro, la promessa della felicità e di un mondo migliore a venire. Fino a ora, il potere è stato nelle mani degli uomini che lo hanno usato in modo narcisistico e violento. Il femminismo è invece un processo che dipende da chi agisce in suo nome; mira a essere la trascendenza teorica e pratica del patriarcato in quanto meccanismo distruttivo, per il mondo e la vita sul pianeta.

Nello scorrere dei capitoli parla spesso di sua madre e di sé, facendo trapelare la storia della sua vita e dichiarando l’esigenza di uno spazio di parola: «È per questo che tutte le femministe, in un modo o in un altro, quando scrivono, parlano di sé».

Come pratica discorsiva, il femminismo è un ritorno delle biografie che sono state rubate alle donne dal sistema patriarcale. Alle donne non era permesso raccontare le loro storie perché la parola è sempre stata nelle mani degli uomini. Simone de Beauvoir si chiedeva come fosse possibile per una persona realizzare se stessa come essere umano essendo una donna. E lo diceva perché consapevole che le donne occupano una posizione secondaria nella società e, peggio ancora, una condizione inessenziale. È difficile pensare che le donne siano sempre state degli esseri al servizio degli uomini.

Il femminismo è un’espressione del fatto che le donne non desiderano più questo ruolo, hanno imparato cosa significa essere protagoniste, che non vuol dire avere un posto nella società dello spettacolo o nei circuiti del potere. Al contrario, esso implica la consapevolezza di se stesse, la capacità di vivere una vita non secondaria ai soggetti privilegiati del patriarcato. Perché ciò sia possibile, è ovviamente necessario decostruire il patriarcato.

Spesso parlando del Brasile, ma non solo, allude alla «cultura della molestia». Racconta di aver provato a ignorare certe forme di violenza patriarcale per non sentirsi «nella posizione della vittima della storia e delle circostanze», senza però riuscirci.

Appartengo a una generazione e a una classe sociale in cui le donne non hanno alcuna possibilità. Dovevo scappare dai miei cacciatori e dovevo farlo da sola. Non c’era stato femminismo per mia madre, come non ce n’era per me. L’ho capito durante l’adolescenza. Mia madre mi ha dato la forza di studiare, anche se lei non ha potuto farlo. Ho studiato molto, sono diventata professoressa all’università molto presto. Come insegnante, ho sperimentato l’estraneità del mondo delle università brasiliane, perché lì il femminismo era estraneo. Sebbene abbia studiato il femminismo nel campo della filosofia, ho iniziato a dirmi femminista solo quando per un certo periodo ho lavorato in una emittente televisiva, circa quindici anni fa.

A quel tempo, in Brasile, il femminismo non conosceva il successo di oggi. Non c’era nemmeno la consapevolezza della tanta violenza e quando c’era, c’era insieme la paura che tutto sarebbe stato anche peggio di quanto non fosse già. Io stessa ho avuto difficoltà ad accettare la presenza di una certa violenza nei miei confronti. La consapevolezza della violenza fa troppo male. Inoltre, sapevo che le forze del patriarcato sono ancora più dure e violente nei confronti delle vittime isolate. Mi sono detta quindi che il femminismo è l’opposto della solitudine. Perché supereremo la violenza contro le donne solo se ci uniremo. È l’unione delle donne che può proteggerci dalla paura e dalle minacce che affrontiamo ogni giorno.

Non esita a parlare di «governo del Golpe». Cita Michel Temer alludendo al suo successore Bolsonaro, scrivendo: «Penso ora al nostro paese sotto un colpo di Stato che è cominciato nel 2016 e che, durante la scrittura di questo libro, non si è ancora concluso. Un colpo di stato che è stato una violenza contro una donna e ha instaurato una dittatura maschilista, insidiosa e cinica, come ogni maschilismo». Vuole aggiungere qualcosa?

La gente non può dimenticare che il Brasile ha subito un colpo di stato. Oggi è stato dimostrato che Dilma Rousseff era innocente, che non ha commesso alcun crimine. Lo stesso atto di governo per il quale è stata destituita è già stato eseguito da Bolsonaro, perché si tratta di una procedura burocratica che tutti i leader seguono. Ma quando è Bolsonaro a farlo si parla di «dribbling» e non di crimine. Perché è il burattino fascista dei neoliberali brasiliani e stranieri che hanno interesse a sfruttare e colonizzare il Brasile. Il colpo di stato contro Rousseff coinvolse media, potere giudiziario e legislativo. Oltre alla sua posizione di leader grottesco, Bolsonaro ha commesso veri crimini contro l’umanità e dovrebbe essere processato per questo. Il governo brasiliano usa la violenza «decorativa» oltre a quella reale. La misoginia che faceva parte della campagna contro Rousseff colpì anche Marielle Franco. I legami di uno dei figli di Bolsonaro con gli assassini di Marielle sono stati oggetto d’inchiesta.

Lei si definisce innanzitutto femminista; donna, “solo in nome della lotta femminista”. Può spiegarci come la volontà di risignificazione del termine donna sia legata alla sua genealogia e quanto di collettivo deve esserci in questo atto?

Ri-significare vuol dire appropriarsi delle costruzioni e dei segni dell’oppressione trasformandoli a favore di coloro che l’hanno subita. I movimenti neri lo fanno con il termine «nero», che è stato creato dal razzismo. Il termine donna, così come il termine femminile, sono stati costruiti dal patriarcato. Ci sono voluti secoli di discorsi e pratiche oppressive per dare un carattere «naturale» alla «donna» e al «femminile». Le femministe hanno trascorso la vita cercando di dimostrare che le donne dovrebbero essere rispettate, che già di per sé è un nuovo significato. Oggi, di fronte all’azione positiva delle donne transgender, è ancora più chiaro che essere una donna va ben oltre ciò che viene definito in termini di biologia. Credo che la pratica concreta del femminismo dipenda dall’atto linguistico individuale, ma che migliori la comprensione del tutto. Ciò non impedisce alle donne che si vedono come donne di continuare ad affermarsi come desiderano. Certamente nel femminismo c’è spazio per tutte le forme d’essere una donna.


(il manifesto, 29 luglio 2020)

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