3 Marzo 2007

Margaret Atwood

Una coppia anziana attende le notizie del giorno, consapevole che saranno cattive. Gli attentati si susseguono, come gli omicidi politici. Un racconto della scrittrice canadese che sembra sospeso in un tempo indefinito, ma che si rivela anche una sottile riflessione sulla storia.

E’ mattina. La notte è finita, per ora, è il momento delle brutte notizie. Penso alle brutte notizie come a un enorme uccello con le ali di corvo e la faccia della mia insegnante di quarta elementare, chignon striminzito, denti rancidi, viso arcigno e grinzoso, labbra contratte e compagnia bella, che vola per il mondo al riparo delle tenebre, compiaciuto del suo ruolo di latore di brutte nuove, portando un cestino di uova marce e sapendo esattamente – mentre sorge il sole – dove deporle. Sulla sottoscritta, tanto per dirne una. A casa nostra le brutte notizie arrivano sotto forma di giornale delle brutte notizie. Tig lo porta di sopra. Il vero nome di Tig è Gilbert. Impossibile spiegare i nomignoli a chi parla un’ altra lingua, non che abbia molte occasioni di farlo. «Hanno appena ucciso il leader del consiglio di governo provvisorio» annuncia Tig. Non che sia impermeabile alle brutte notizie: al contrario. è spigoloso, ha meno grasso corporeo di me e perciò minore capacità di assorbire, attutire, trasformare le calorie delle brutte notizie – che contengono calorie, eccome, ti fanno salire la pressione sanguigna – nella sostanza del proprio corpo. Io ci riesco, lui no. Vuole passare le brutte notizie il più presto che può – togliersele dalle mani, come una patata bollente. Le brutte notizie lo scottano. Sono ancora a letto. Non del tutto sveglia. Mi crogiolavo un po’ . Fino a ora mi godevo la mattina. «Non prima di colazione» dico. Non aggiungo: «Sai che non sopporto certe cose all’ inizio della giornata». L’ ho aggiunto in passato; ha fatto effetto solo di quando in quando. Dopo tanto tempo insieme, abbiamo entrambi la testa piena di piccoli ammonimenti, consigli utili – simpatie e antipatie, preferenze e tabù. Non venirmi alle spalle a quel modo mentre leggo. Non usare i miei coltelli da cucina. Non lasciare le cose in giro. L’ uno crede che l’ altra debba rispettare questa serie di reiterate istruzioni per l’ uso, ma esse si neutralizzano a vicenda: se Tig deve rispettare il mio bisogno di crogiolarmi dimentica di tutto, immune da brutte notizie, fino alla prima tazza di caffè, io non dovrei forse rispettare il suo bisogno di vomitare le catastrofi, in modo da sbarazzarsene? «Oh. Mi dispiace» dice. Mi lancia un’ occhiata di rimprovero. Perché devo scontentarlo così? Non so forse che se non può dare le brutte notizie, a me e subito, una ghiandola verde bile delle brutte notizie, o vescica che sia, gli scoppierà dentro e gli verrà la peritonite dell’ anima? Allora sarei io a dispiacermi. Ha ragione, mi dispiacerebbe. Non mi rimarrebbe nessuno di cui saper leggere i pensieri. «Ora mi alzo» dico, sperando così di confortarlo. «Scendo subito». «Ora» e «subito» non hanno lo stesso significato che avevano prima. Tutto richiede più tempo di una volta. Ma con i gesti di tutti i giorni me la cavo ancora, sfilare la camicia da notte, mettere il vestito da giorno, allacciare le scarpe, lubrificare il viso, scegliere le pillole di vitamine. Il leader, penso. Il consiglio di governo provvisorio. Ucciso da loro. Tra un anno non ricorderò quale leader, quale consiglio di governo provvisorio, quali loro. Ma certe notizie si moltiplicano. Tutto è provvisorio, nessuno riesce più a governare, e ci sono un sacco di «loro», troppi. Vogliono sempre uccidere i leader. Spinti dalle migliori intenzioni, o almeno così sostengono. Anche i leader hanno le migliori intenzioni. I leader sono sotto i riflettori, gli assassini prendono la mira nell’ oscurità; hanno partita facile. Quanto agli altri leader, i leader dei paesi guida, come vengono chiamati, in realtà non guidano più niente, si agitano e basta; glielo vedi negli occhi, cerchiati di bianco come quelli dei bovini in preda al panico. Non si può guidare se non si è seguiti da nessuno. La gente alza le mani, ma poi se le mette in tasca. Vuole solo tirare avanti. I leader continuano a dire: «Abbiamo bisogno di una leadership forte», poi se la filano alla chetichella a sbirciare le previsioni elettorali. Sono brutte notizie, e ce ne sono troppe: non lo sopportano. Ma ci sono già state brutte notizie, e noi ce la siamo cavata. è quello che si dice delle cose che risalgono a prima della propria nascita, o di quando ci si succhiava ancora il pollice. Amo questa formula: Noi ce la siamo cavata. Non significa niente quando si tratta di avvenimenti a cui non eri presente personalmente, come se fossi entrato in un club chiamato Noi e ti fossi appuntato un distintivo di plastica con su scritto Noi per potervi accedere. Comunque, Noi ce la siamo cavata è fortificante. Evoca una marcia o un corteo, cavalli che si impennano, costumi laceri e infangati dopo l’ assedio o la battaglia o l’ occupazione nemica o il massacro di draghi o i quarant’ anni nel deserto. Magari con un leader barbuto che alza il suo stendardo e punta avanti. Il leader avrebbe già ricevuto le brutte notizie. Le ha afferrate, le ha capite, sapeva cosa fare. Attaccare dal fianco! Avventarsi alla gola! Lasciare l’ Egitto, cavolo! Cose del genere. «Dove sei?» grida Tig su per le scale. «Il caffè è pronto». «Eccomi» grido in risposta. Lo usiamo un sacco, questo walkie-talkie aereo. La comunicazione non ci ha abbandonato, non ancora. Non ancora non si sente, come la h di honour. è il non ancora muto. Non lo diciamo ad alta voce. Ecco i tempi verbali che ormai ci definiscono: il passato, una volta; il futuro, non ancora. Viviamo nella piccola finestra tra l’ uno e l’ altro, lo spazio che solo di recente siamo arrivati a considerare un’ ancora e che in realtà non è più piccolo di qualsiasi finestra altrui. è vero, abbiamo qualche acciacco – un ginocchio qui, un occhio là – ma per ora si tratta solo di inezie. Ci divertiamo ancora, purché ci concentriamo su una cosa per volta. Ricordo quando prendevo in giro nostra figlia, tempo fa, quando era adolescente. Facevo finta di essere vecchia. Andavo a sbattere contro le pareti, facevo cadere le posate, fingevo di avere vuoti di memoria. Non è più tanto uno scherzo. * * * La cucina, quando ci arrivo, odora di pane tostato e caffè: non c’ è da stupirsi, perché è quello che sta preparando Tig. L’ odore mi avviluppa come una coperta, rimane lì mentre mangio il vero pane tostato e bevo il vero caffè. Là, sul tavolo, ci sono le brutte notizie. «è da un po’ che il frigorifero fa un rumore» dico. Non prestiamo abbastanza attenzione ai nostri elettrodomestici. Nessuno dei due. Attaccata al frigorifero c’ è una foto di nostra figlia scattata parecchi anni fa; brilla su di noi come la luce di una stella che si allontana. è tutta presa dalla sua vita, altrove. «Guarda il giornale» dice Tig. Ci sono delle foto. Le brutte notizie sono peggiori con le foto? Io credo di sì. Le foto ti costringono a guardare, che tu lo voglia o no. C’ è l’ auto bruciata, una delle tante ormai, con il suo telaio scheletrico di metallo contorto. Dentro è rannicchiata un’ ombra carbonizzata. Nelle foto come questa ci sono sempre delle scarpe vuote. Sono le scarpe a farmi effetto. Triste, quell’ innocente compito quotidiano – infilarsi le scarpe nella ferma convinzione di andare da qualche parte. Le brutte notizie non ci piacciono, ma ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di venirle a sapere, caso mai debbano capitarci. Un branco di cervi che pascola pacificamente a testa bassa nel prato. Poi bau, bau – cani selvatici nel bosco. Testa alta, orecchie avanti. Prepararsi a fuggire! Oppure, la difesa del bue muschiato: lupi in avvicinamento è la notizia. Svelti – formare un cerchio! Le femmine e i piccoli al centro! Sbuffare e grattare il terreno! Prepararsi a incornare il nemico! «Non si fermeranno» dice Tig. «è un bel guaio» replico io. « E la polizia dov’ era?» Quando Dio distribuì i cervelli, si diceva una volta, alcuni di cui potremmo fare il nome erano gli ultimi della lista. «Se vogliono davvero ucciderti, ti uccidono» dice Tig. è fatalista per queste cose. Non sono d’ accordo, e passiamo un piacevole quarto d’ ora a evocare i nostri testimoni morti. Lui suggerisce l’ arciduca Ferdinando e John Kennedy; io propongo la regina Vittoria (otto tentativi falliti) e Stalin, che riuscì a non farsi assassinare praticando lui stesso l’ assassinio indiscriminato. Un tempo, magari questa sarebbe stata una discussione. Adesso è un passatempo, come il gin rummy. «Siamo fortunati» commenta Tig. So cosa intende. Intende noi due, seduti qui in cucina, ancora. Nessuno dei due se n’ è andato. Non ancora. «Sì, è vero» dico io. « Attento al pane – sta bruciando». Ecco. Abbiamo fronteggiato le brutte notizie, le abbiamo prese per le corna, e stiamo bene. Non siamo feriti, non perdiamo sangue, non siamo bruciacchiati. Abbiamo tutte le nostre scarpe. Il sole splende, gli uccelli cantano, non c’ è motivo per non sentirsi piuttosto bene. Il più delle volte le brutte notizie vengono talmente da lontano – le esplosioni, le fuoriuscite di petrolio, i genocidi, le carestie. Ci saranno altre notizie, in seguito. Ci sono sempre. Ce ne preoccuperemo al momento. Alcuni anni fa – quando? – io e Tig andammo nel sud della Francia, in un posto chiamato Glanum. Era una vacanza per modo di dire. In realtà volevamo vedere la casa di cura in cui Van Gogh aveva dipinto gli iris, e la vedemmo. Glanum fu una deviazione. Non ci ho pensato per anni, ma adesso mi ritrovo laggiù, tanto tempo fa, a Glanum, prima che venisse distrutta nel terzo secolo, prima che si riducesse a qualche rovina che si può visitare solo a pagamento. Ci sono ville spaziose, a Glanum; ci sono terme pubbliche, anfiteatri, templi, i tipi di edificio che i romani erigevano ovunque andassero, per potersi sentire civili e a casa. Glanum è molto amena; molti alti ufficiali militari in pensione si stabiliscono lì. è abbastanza multiculturale, abbastanza varia: a noi piace la novità, l’ esotico, ma non tanto quanto a Roma. Siamo un po’ provinciali, qui. Eppure, abbiamo divinità di tutte le provenienze, oltre a quelle ufficiali, si capisce. Per esempio, abbiamo un piccolo tempio dedicato a Cibele decorato con due orecchie, per indicare la parte del corpo che ci si potrebbe tagliare in suo onore. Gli uomini ci scherzano sopra: siete fortunati a cavarvela con le orecchie, dicono. Meglio un uomo senza orecchie che nessun uomo. Ci sono case greche più vecchie mescolate a quelle romane, ed è rimasta ancora qualche usanza greca. I celti vengono in città; alcuni indossano tunica e mantello come i nostri e parlano un latino decente. I nostri rapporti con loro sono abbastanza amichevoli, ora che hanno rinunciato ai loro modi da cacciatori di teste. Tig ha certi doveri di ospitalità, e io una volta ho invitato un’ importante celta a cena. Era un rischio sociale, ma di lieve entità: il nostro ospite si è comportato abbastanza normalmente e si è ubriacato giusto quel tanto che richiedevano le usanze. Aveva strani capelli – rossi e ricciuti – e portava la sua torque in bronzo da cerimonia, ma non era più violento di qualche altra persona di cui potrei fare il nome, sebbene esibisse una cortesia davvero inquietante. Sto facendo colazione nel salottino con l’ affresco di Pomona e gli Zefiri. Il pittore non era di prim’ ordine – Pomona è leggermente strabica e ha i seni enormi, ma qui non si possono sempre avere cose di prim’ ordine. Cosa starei mangiando? Pane, miele, fichi essiccati. La frutta fresca non è ancora di stagione. Niente caffè, sfortunatamente; non credo che sia stato ancora inventato. Bevo un po’ di latte di giumenta fermentato, per favorire la digestione. Una schiava fedele ha portato la colazione su un vassoio d’ argento. Ci sono schiavi capaci, in questa tenuta, fanno bene il loro lavoro: sono silenziosi, discreti, efficienti. Non vogliono essere venduti, naturalmente: fare lo schiavo in casa è meglio che lavorare alla cava. Arriva Tig con un rotolo. Tig è il diminutivo di Tigri, un nomignolo che gli è stato affibbiato dalle truppe che comandava un tempo. Solo pochi intimi lo chiamano Tig. Aggrotta le sopracciglia. «Brutte notizie?» chiedo. «I barbari ci stanno invadendo» dice. «Hanno attraversato il Reno». «Non prima di colazione» faccio io. Sa che non riesco a parlare di questioni importanti subito dopo essermi alzata. Ma sono stata troppo brusca: vedo la sua aria ferita e mi addolcisco. «Attraversano continuamente il Reno. Prima o poi si stancheranno. Le nostre legioni li sconfiggeranno. Lo hanno sempre fatto». «Non lo so» dice Tig. «Non avremmo dovuto ammettere tanti barbari nell’ esercito. Non è gente di cui fidarsi». Ha trascorso anche lui un lungo periodo nell’ esercito, perciò la sua preoccupazione è fondata. D’ altra parte, è sua opinione che Roma stia andando a catafascio, e ho notato che quasi tutti gli uomini in pensione la vedono così: il mondo non può proprio funzionare senza i loro servigi. Non è che si sentano inutili; si sentono inutilizzati. «Per favore, siediti» dico. «Ti mando a prendere un bel pezzo di pane e miele, con i fichi». Tig si siede. Non gli offro il latte di giumenta, anche se gli farebbe bene. Sa che so che non gli piace. Odia essere tormentato a proposito della sua salute, che ultimamente gli sta dando qualche problema. Oh, lascia le cose come stanno, lo prego muta. «Hai sentito?» dico. «Hanno trovato una testa appena mozzata appesa accanto al vecchio pozzo votivo celtico». Un lavoratore della cava che è scappato nel bosco, cosa che sono stati avvertiti di non fare… lo sa il cielo. «Credi che stiano tornando al paganesimo? I celti?» «In realtà ci odiano» risponde Tig. «E quell’ arco commemorativo non è d’ aiuto. è una mossa tutt’ altro che diplomatica – i celti sconfitti, le loro teste calpestate dai piedi dei romani. Non hai visto come ci fissano il collo? Gli piacerebbe conficcarci un coltello. Ma adesso sono rammolliti, si sono abituati ai lussi. Non come i barbari del Nord. I celti sanno che se affondiamo, affonderanno con noi». Prende solo un boccone del pane squisito. Poi si alza, va su e giù per la stanza. Sembra eccitato. «Vado alle terme» dice. «A sentire le notizie». Pettegolezzi e voci, penso. Prodigi, presagi; uccelli in volo, viscere di pecora. Non sai mai se una notizia sia vera finché non ti si scaglia addosso. Finché non ti è sopra. Finché non allunghi il braccio e non c’ è più respiro. Finché non gridi nel buio, vagando per le stanze vuote, con addosso la tua camicia da notte bianca. «Ce la caveremo» dico. Tig non dice niente. è una giornata talmente bella. L’ aria profuma di timo, gli alberi da frutto sono in fiore. Ma questo non significa nulla per i barbari; anzi, loro nelle belle giornate preferiscono invadere. C’ è maggiore visibilità per i saccheggi e i massacri. Questi sono gli stessi barbari che – ho sentito dire – riempiono di vittime gabbie di vimini e le incendiano in sacrificio ai loro dèi. Comunque, sono molto lontani. Ammesso che riescano ad attraversare il Reno, ammesso che non vengano uccisi a migliaia, ammesso che il fiume non giunga a tingersi del rosso del loro sangue, ci vorrà molto tempo prima che arrivino qui. Non accadrà durante la nostra vita, forse. Glanum non è in pericolo, non ancora.

Traduzione di Raffaella Belletti © 2006 O. W. Toad LTD, Moral Desorder © 2006 Ponte alle Grazie

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