21 Aprile 2021
Gazzetta di Parma

Mariangela Mianiti. Quella casa incattivita nella Bassa

di Barbara Notaro Dietrich


Su queste pagine Davide Barilli, subito dopo l’uscita del libro, ha scritto che «Organsa» di Mariangela Mianiti è un romanzo «vero e spietato, un roveto di straziata verità». E lo è perché l’autrice, nel raccontare in prima persona l’infanzia e l’adolescenza di Aurelia, non fa sconti a nessuno, neppure alla protagonista che cambierà la sua vita e non diventerà né come i nonni, né come i genitori, imprigionati chi nella loro cattiveria, chi nella loro incapacità di opporsi, tutti in un casone della Bassa parmigiana che è osteria, emporio, e punto di ritrovo della piccola comunità locale. 

Mianiti, che ha scritto questo libro più di dieci anni fa in cerca di editore poi arrivato, a riprova del fatto che i cosiddetti classici non hanno scadenza, definisce il suo stato di nomade affettiva – il marito in Svizzera, il lavoro a Milano: «Sì, mi divido tra la metropoli che è la mia passione e la città che ho scelto quando son andata via dalla provincia e questo posto fantastico vicino a Locarno in una casa a strapiombo su un fiume». 

La città come via di fuga dunque per lei e Aurelia?

«Dopo il diploma al conservatorio a Lucca, anche se per molti anni ho frequentato quello di Parma, mi proposero di insegnare a Parma ma dissi no: scelsi la grande città in cui non conoscevo nessuno ed era tutto da costruire, in cui ti puoi nascondere. Nel mio profondo c’è sempre stato il desiderio di essere invisibile, impalpabile ed essere ovunque contemporaneamente che per certi versi ho trasfuso nel romanzo quando parlo del rapporto di Aurelia con l’aria, l’altalena e la bicicletta ovvero con tutto quel che ti fa volare via e in alto».

Nel romanzo, chi più chi meno, son tutti maltrattati dalla vita e però incapaci di provare e mostrare tenerezza. La sofferenza non si trasforma in affetto. La madre di Aurelia vive per i suoi figli ma non li coccola.

«Questo aspetto fa parte di quella generazione e di quell’ambiente contadino dove sin da piccoli si era abituati alla durezza della vita e dunque niente carezze o abbracci o parole gentili, anzi

ci si abbaia addosso e i bambini devono essere curati per i loro bisogni primari. Era appunto il mondo contadino che aveva una sua ferocia anche con gli animali».

Il fratello di Aurelia però li cerca e li cura gli animali.

«È la legge del contrappasso. Così come Aurelia osserva questo mondo di cui vuole liberarsi attraverso la scuola, il fratello d’istinto reagisce facendo il contrario di quel che si fa in famiglia con gli animali: la nonna li ammazza, tutti li mangiano e lui invece li vuole salvare.

Aurelia e il fratello mostrano dentro sé il seme della salvezza».

Una salvezza che però nasce dal dolore di non aver salvato gli altri. O di essere stati perfino cattivi come quando Aurelia non accoglie la richiesta del padre di insegnargli a leggere.

«La consapevolezza di Aurelia è di avere davanti due scelte: o tu o gli altri. Se salvi te stesso poi forse potrai anche essere in grado di offrire uno spiraglio di salvezza per gli altri. Non si tratta di egoismo ma di necessità. Rispetto all’episodio del padre quel che pesa ad Aurelia è l’offerta di denaro da parte sua. E sì, sa di esser stata inutilmente cattiva come i nonni che hanno avvelenato la vita della madre».

Il suo romanzo ricorda «Il posto» di Annie Ernaux anche se in quel libro c’è soprattutto il senso di vergogna per la famiglia di origine.

«In Organsa non c’è tanto la vergogna quanto la consapevolezza della distanza: fin dal momento in cui comincia a guardare il mondo e a notare i primi segni del danno che scorre all’interno della sua famiglia, Aurelia si rende conto che per salvarsi dovrà fare altro e andarsene. Forse la vergogna verrà dopo, ma sarà più senso di inadeguatezza».

Il finale del libro è quasi surrealista con la madre che ha messo assieme cinque lavatrici.

«Tutti gli oggetti che madre accumula non sono solo lo specchio della sua vita negata, il poter finalmente decidere lei che cosa fare e come tenere il casone che è stata la sua prigione, ma c’è anche una ragione profonda, legata al figlio perso proprio per la mancanza di una lavatrice».


(Gazzetta di Parma, 21 aprile 2021)

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