23 Luglio 2020
Il Quotidiano del Sud

Marianna, una donna contro la ’ndrangheta

di Franca Fortunato


Negli ultimi dieci anni molte/i hanno scritto, io stessa l’ho fatto, delle testimoni e collaboratrici di giustizia di famiglie di ’ndrangheta, che hanno denunciato e mandato in galera i loro uomini per rendere libere se stesse e le figlie e i figli, alcune hanno pagato con la vita. Si è scritto anche delle madri che sempre più affidano i figli e le figlie al Tribunale di Reggio Calabria per sottrarle/i a un destino certo, mafiosi i primi, mogli di mafiosi le seconde. Qualcosa di imprevisto e imprevedibile per gli uomini di ’ndrangheta, che hanno visto distrutti i legami di sangue su cui hanno sempre contato per garantirsi omertà e complicità.

Si è scritto anche di testimoni di giustizia non appartenenti a famiglie mafiose ma, che io sappia, non di donne e in particolare di Marianna F., probabilmente la prima testimone di giustizia, la cui storia è diventata un libro, da poco in libreria, Testimone di ingiustizia, edito presso San Paolo, scritto insieme al giornalista Eugenio Arcidiacono. Marianna è nata e cresciuta in un paesino del crotonese dove negli anni della sua infanzia felice “nessuno parlava di mafia o di ’ndrangheta (…) era un’oasi felice”, come lo erano altri paesi e città della Calabria, compresa la Vibo Valentia della mia infanzia. Poi tutto cambia, con l’emergere di due boss locali che in guerra con un suo zio mafioso lo ammazzano. Ignara del cambiamento che questo porterà anche nella sua vita, si diploma e si trasferisce a Pisa per frequentare l’università dove si laurea in lingue. Trova lavoro a Parigi, è felice, quando le ammazzano i fratelli, Francesco che “frequentava brutte compagnie” e Luigi, per paura che un giorno potessero vendicare la morte dello zio. È a questo punto che la sua vita prende una strada irreversibile, almeno fino ad oggi. Erano i primi anni Novanta. Assieme ai genitori e alla sorella diventa testimone di giustizia ed entra nel programma di protezione. Da allora vive/vivono lontano dalla Calabria, sotto falsa identità, senza amici e amiche e senza un lavoro. Marianna è orgogliosa di sé e dei suoi per aver fatto condannare l’assassino e i mandanti anche se del solo fratello Luigi. Scrive e racconta la sua storia di “fantasma per aver denunciato la ’ndrangheta” perché si sente tradita e disillusa da uno Stato che non ha mantenuto le sue promesse. Lei sa che la ’ndrangheta, invece, le sue di promesse le mantiene, anche a distanza di anni, ed è per questo che, ancora oggi, uscita con la madre e la sorella dal programma di protezione – il padre è morto, il fratello piccolo è chiuso in una clinica –, vive nel terrore di essere scoperta/e e ammazzata/e, come le ha gridato dalle sbarre uno dei boss condannati. Dopo 25 anni non è libera di tornare nella sua casa per “ritrovare le vecchie foto, la mia tesi conservata in un cassetto e soprattutto toccare e ammirare il corredo che con tanto amore la mamma aveva preparato per me (…) e poi correre in spiaggia e farmi una lunghissima nuotata, finalmente libera”.

Se le donne di famiglie di ’ndrangheta hanno trovato nel programma di protezione la strada della loro liberazione e l’inizio di una nuova vita, Marianna, invece, ha perso la sua libertà e la sua felice “vita vissuta”. “Era finito tutto, le passeggiate per i vicoli del mio paese, le vacanze al mare, i raduni nel pomeriggio attorno alla piccola villa nel centro storico, le corse al bar a mangiare un gelato”. Se oggi le condizioni di vita delle/i testimoni di giustizia sono migliorate è grazie anche alle battaglie sue e della sorella, ed oggi non chiede che una vita da vivere, per sé e i suoi familiari.


(Il Quotidiano del Sud, 23 luglio 2020)

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