12 Dicembre 2018

Maternità. Surrogata? un incontro a Catania con Daniela Danna

di Pinella Leocata

 

La maternità surrogata è una delle forme in cui si esprime la violenza maschile contro le donne. Legittimare la pratica della “gestazione per altri”, che cancella l’importanza e il significato profondo della gestazione e del parto, significa assumere un approccio maschile che nega e svaluta il ruolo della madre e la specificità della procreazione per la quale non può valere il principio della simmetria dei sessi. Una posizione, questa – condivisa da molte femministe – di cui si è discusso nei giorni scorsi a Catania nel corso di un incontro promosso dalle donne de La Ragna-Tela sul libro-ricerca Maternità. Surrogata? di Daniela Danna, docente di Scienze politiche alla Statale di Milano. Sottotitolo: Nel bazar della vita: il prezzo di un figlio? Trattabile (Asterios editore).

La ricerca condotta dalla prof. Danna in Usa, in India e in tanti Paesi in cui questa pratica è legittima le ha consentito di mettere a fuoco alcuni punti cruciali della questione, a partire da quello relativo alla salute della gestante e del nascituro. La donna che “offre” il proprio utero per la gestazione viene sottoposta, spesso senza essere avvertita, a pesanti “cure” in vista della fecondazione, procedure – debilitanti dal punto di vista fisico – che si traducono in gravidanze e parti difficili e in maggiori rischi per il bambino. Non solo. Durante la gestazione la donna è obbligata a essere controllata dal medico della coppia per cui genera e a seguire il tipo di vita che le viene imposto. Al parto, poi, il bambino le viene subito tolto, con i gravi danni che questo provoca emotivamente non solo alla madre, ma anche al neonato che per 9 mesi ha vissuto con lei, nutrendosi del suo sangue, delle sue emozioni, della sua voce, del suo odore. Non solo. In caso di gravidanze multiple, e sono frequenti visto che per sicurezza vengono impiantati più ovuli, è il committente a scegliere quanti e quali embrioni tenere e quanti e quali eliminare. La gestazione per altri, dunque, sconfina nell’eugenetica e considera la gestante come una macchina di produzione a disposizione del committente, negando alla maternità il significato profondo di relazione tra madre-figlio.

Ancora. Lì dove questa pratica è legale si è passati rapidamente dal “dono”, con divieto di pagamento per la gestazione, al rimborso spese e al contratto di pagamento; e dalla possibilità per la partoriente di scegliere di tenersi il bambino all’eliminazione di questo diritto. Una clausola capestro che non è data in nessun altro contratto di lavoro dal quale si può sempre retrocedere. E anche nei Paesi dove la legge non è scritta, in caso di conflitto, i tribunali finiscono per scegliere la situazione migliore per bambino, intesa sempre come la famiglia che ha più soldi.

Secondo il diritto romano “la madre è sempre certa”, cioè è colei che ha partorito, ed è questo che sancisce la filiazione. Regolare la maternità attraverso l’istituto giuridico del contratto, invece – denuncia la prof. Daniela Danna – significa non solo stabilire che la filiazione non passa dalla generazione ma dal contratto, ma anche mettere in piedi un mercato della filiazione di cui, come per tutti i mercati, lo Stato si fa regolatore. «E nel mercato entrano le dinamiche del potere economico, tant’è che la gestazione per altri è diffusa in India e nei Paesi poveri dove per alcune donne questo, insieme alla prostituzione, è considerato l’unico modo di guadagnare». Una realtà che si cerca di nascondere attraverso la neutralizzazione del linguaggio per cui si parla della gestante come di una “portatrice”, reificando così l’evento della maternità come se si trattasse di cose e non di relazioni.

«Non è vero che la gestazione per altri è un dono – sostiene Daniela Danna – tant’è che i committenti preferiscono pagare per assicurarsi il figlio e la libertà di imporre le proprie decisioni alla gestante. E questo parla di un’idea di figlio come possesso e come diritto. Un falso diritto perché un diritto presuppone che dall’altra parte ci sia qualcuno che abbia il dovere di dare».

Tra le tante questioni poste dalla pratica dell’utero in affitto c’è anche il tema della libertà della donna (ma di quale libertà parliamo?) e quello del “lavoro” che in questo caso viene declinato non certo come uno strumento di emancipazione, ma come mera possibilità di fare dei soldi. Ancora. Sostenere che la madre è colei cui appartiene l’ovocita significa fare prevalere il legame genetico con il figlio e, dunque, assumere una posizione maschile a discapito della relazione madre/figlio che è legata alla gestazione e al parto. E significa non tenere conto dei diritti del neonato, a partire dal diritto alla continuità familiare.

Alla luce di tutte queste considerazioni, Daniela Danna conclude che il movimento LGBT – di cui è stata alfiera – rivendicando il diritto alla gestazione per altri «rischia di essere la testa di ponte per una trasformazione della procreazione umana che iscriverà la disuguaglianza negli stessi corpi, con il ricorso crescente a tecniche di riproduzione assistita che non si distinguono dall’eugenetica».

(www.libreriadelledonne.it, 12 dicembre 2018)

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