di Franca Fortunato
La “Signora del giornalismo italiano” è la protagonista del libro Matilde Serao – la voce di Napoli, edito da BeccoGiallo. Un libro bello da leggere e da guardare, con disegni della fumettista Lidia Aceto e la sceneggiatura della giornalista Francesca Bellino che ci restituiscono una Matilde Serao, tra vita privata e vita pubblica, poco conosciuta e raccontata. Donna audace, coraggiosa, trasgressiva, fu la prima in Italia, in un mondo di uomini, a fondare e dirigere un giornale. Fece del giornalismo, oltre che della letteratura, la sua passione e ragione di vita, sorretta dall’amore per la sua Napoli e la sua gente, in particolare per le napoletane. Con i suoi articoli, reportage, inchieste «sapeva entrare nel cuore della gente» e quando nel 1906 vi fu l’ eruzione del Vesuvio, raccontata nel libro con disegni suggestivi, lei divenne «la voce di Napoli», la testimone di un popolo inizialmente curioso e euforico di fronte allo spettacolo dell’eruzione, poi muto, spaventato, colpito da cenere e lava, sopraffatto, schiacciato, impotente davanti alla più devastante eruzione vulcanica del Novecento, che causò oltre 216 vittime, 112 feriti gravi, 30mila sfollati e distrusse case e campi. Durante i giorni dell’eruzione (dal 4 al 23 aprile) la si vede andare «avanti e indietro tra la redazione e i paesi vesuviani per raccogliere storie, fatti e umori. Vuole essere in prima linea […] per descrivere gli avvenimenti con cuore sincero, affidandosi all’istinto» perché suo “dovere” di cronista è “di vedere”, raccontare, testimoniare. Così per il giornale Il Giorno da lei diretto e fondato insieme al suo compagno, dopo la separazione dal marito con cui aveva fondato Il Mattino, la si vede salire sul treno, entrare nelle città ai piedi del Vesuvio e dal vulcano sventrate, tra le viuzze martoriate, a contatto con anziani sgomenti, piccoli terrorizzati, uomini e donne disorientate, file di sfollati. Guarda, osserva e scrive, scrive, sempre. «Noi possiamo fare poco, noi, poveri cronisti dei dolori umani – scrive di ritorno dalla montagna – ma noi vogliamo vedere coi nostri occhi, questo dolore, noi vogliamo raccontarlo, perché esso commuova il cuore della gente all’eroismo e alla pietà, e vogliamo raccontarlo com’è, come esiste, come abbiamo fatto sempre, sulla testimonianza personale». Un amore, il suo, per la scrittura che affonda nell’amore per la madre. «Matilde ha cominciato a leggere e scrivere tardi. A otto anni non sapeva ancora leggere e scrivere. Venne stimolata a prendere in mano i libri solo quando la madre si ammalò e, allettata, le chiedeva di leggerle delle storie. Matilde scoprì così di amare la lettura e la scrittura». Amore per la madre, amore per le donne che la porta ad accogliere e crescere come una figlia la neonata nata dal tradimento del marito con una cantante e ballerina francese. Abbandonata dall’amante, in preda alla disperazione, la donna lasciò la creatura davanti alla casa di Matilde e lì, davanti all’uscio, si sparò. Matilde rimase al suo capezzale fino alla morte e si separò dal marito. Dopo l’eruzione torna sui luoghi desolati per non dimenticare «i morti che giacqueroۛ» e i vivi «che furono privi del tetto, del pane, delle vesti». Incontra tante persone tra cui la levatrice Vincenza Arpia tornata per «raccogliere […] un bambino nato tra le macerie». «Questa popolana dice una cosa profonda e grande. Un bimbo è nato nelle rovine. O resurrezione sempiterna della vita! O bimbo che sei un simbolo! Mai perisce, la vita: ed è un eterno germoglio di forza e di beltà». E con la vita rinasce la speranza di «un popolo che non ha altro conforto che questo: sperare». Un libro bello, un omaggio da donna a donna a una grande giornalista, che seppe scrivere restando sempre fedele a sé stessa.
(Quotidiano del Sud, 10 agosto 2024, rubrica “Io, Donna”)