13 Gennaio 2024
Il manifesto

Mercedes, la rivolta in un ago da sarta

di Francesca Lazzarato


Il sostantivo spagnolo nero possiede significati in buona parte affini a quelli che “genere” ha in italiano, ma ce n’è almeno uno del tutto diverso: il termine, infatti, vuol dire anche “stoffa, tessuto”, ed è questo il senso che viene spontaneo attribuirgli, incontrandolo in (D)istruzioni duso per una macchina da cucire (pp. 80, euro 14) di Eugenia Prado Bassi, singolare scrittrice, editrice, grafica e drammaturga cilena, presentata per la prima volta in italiano da Edicola Edizioni nell’ottima traduzione di Laura Scarabelli, cui si deve anche una puntuale prefazione.

L’autrice, tuttavia, ha inserito la parola nero, insieme alla figura di un’antica macchina da cucire a manovella, in una paginetta dove leggiamo una definizione ben lontana da quella che ci si aspetterebbe, in un testo che si occupa di sarte, sartine e cucitrici: «Genere: artefatto creato dall’uomo che definisce o riduce la specie umana in due categorie, secondo le quali la femmina deve investire tutte le sue energie per imparare ad aspettare il suo turno. Dicesi anche di un insieme di entità o cose con caratteristiche comuni, parti di un tutto fondato e determinato dal padre. Le conseguenze si riproducono nei secoli dei secoli, sistematicamente».

Un simile gioco linguistico (che rimanda alla differenza sessuale e che in italiano va perduto, com’è inevitabile) è destinato a spiazzare il lettore, a ribaltarne le attese, a farlo muovere tra metafore visive e testuali, e soprattutto a definire il tono di una narrazione plurima, autentico collage di scrittura e immagini, ma soprattutto di significati. Una “confezione” complessa, precisa e perfetta nella sua apparente semplicità, che sfrutta il frammento e accosta voci di donne rinchiuse in una stanza, in un capannone, in una fabbrica più o meno clandestina, più o meno squallida, dove siedono per ore e ore davanti alle macchine da cucire, per poi tornare in case dove le aspettano il lavoro domestico, la cura della famiglia e altri “lavoretti” di sartoria, eseguiti in privato per integrare un salario insufficiente.

Eugenia Prado Bassi (che dice di sé stessa «non vengo dalla letteratura, i miei processi creativi risiedono altrove, leggo, disegno, comunico via web. Lavoro con altre logiche, vivo la maggior parte della giornata davanti allo schermo di un computer, transitando da un luogo all’altro») è, come sottolinea Laura Scarabelli, una «scrittrice eccentrica», che infrange le strutture narrative tradizionali per aprirle a un’infinità di letture e interpretazioni, servendosi di procedimenti audaci come quello che ha dato vita al suo romanzo-installazione Hembros: Asedios a lo Post Humano, opera capace di fondere teatro, musica, letteratura, video, in perpetua evoluzione e costantemente rielaborata in un arco di quasi vent’anni.

Nel lavoro dell’autrice, dunque, troviamo l’eco della sperimentazione che tutt’ora connota parte della letteratura cilena (da Diamela Eltit a Cynthia Rimsky a Juan Pablo Sutherland), e che, in queste (D)istruzioni per luso, ci rimanda a quel che scrive una straordinaria esponente della poesia argentina, Tamara Kamenszain, nel saggio Bordado y costura del texto: «La possibilità femminile di osservare le cuciture per vederne la costruzione dal rovescio, apre alla donna, nel suo rapporto con la scrittura, il cammino dell’avanguardia».

In questo breve, frammentario racconto, Eugenia Prado Bassi esamina in modo nuovo e originale un personaggio che nel corso del tempo ha sedotto scrittori e artisti e che è stato così a lungo presente nella cultura popolare da diventare quasi un archetipo, ma che qui emerge con forza inconsueta grazie all’uso di linguaggi diversi, cuciti insieme da un ago simbolico: spiegazioni tecniche, definizioni dei punti più usati, descrizioni di utensili e macchinari, voci tratte da un dizionario reinventato e allusivo, figurine in bianco e nero (antichi corsetti, manichini, mostruose crinoline), pagine di diario e appunti. Il tutto fuso in un testo che rivendica ogni sua riga come intensamente politica e mette in luce la contraddizione non risolta tra l’orgoglio per il salario guadagnato e l’esercizio della propria abilità, e l’annullamento di ogni possibile tempo di vita da parte di un capitalismo estremo e vorace.

Il libro si presenta in primo luogo come un taccuino, un quaderno privato sul quale la sarta Mercedes («che scrive bene», che ama leggere e guardarsi intorno) incolla immagini ritagliate, conserva cartamodelli e annota frasi, impressioni, episodi, vicende, voci, lamentele, astuzie e ribellioni delle venticinque compagne con cui condivide giornate interrotte da un’unica ora di pausa, e lo spazio di uno stanzone che dilata l’angolo o l’ambiente destinati al cucito nelle case di un tempo, non importa se borghesi o proletarie.

Modellati da gesti ripetuti all’infinito, i corpi delle costureras affiorano dalla scrittura, sottoposti a un controllo costante che va di pari passo con quello dei tempi di produzione, e che nelle illustrazioni è simboleggiato da un occhio onniveggente, intento a osservare abiti e manichini.

Corpi precari, sfruttabili e sfruttati, costretti a identificarsi e quasi a fondersi con lo strumento che usano, corpi addestrati sin dall’infanzia alla «femminile» e «naturale» attività del taglio-e-cucito, nati «con una naturale tendenza a divenire macchine», dice Mercedes, perché i loro corpi costituiscono una potentissima forza produttiva, e in più di un senso.

Non è solo il vorace mercato del fast fashion, infatti, a dover essere rifornito: i doveri della biologia, ricordati da una delle compagne di Mercedes, impongono anche la produzione di altri corpi, di altra forza lavoro, di nuovi consumatori.

Nell’ultimo capitolo, «Altre pratiche femminili», un ulteriore collage di voci racconta perciò la disperazione di chi deve, e non vuole, «sopportare feti troppe volte incubati a forza», e la trama del testo (o del corpo) si increspa, cucendo con punti fittissimi l’aborto segreto e clandestino alla prima definizione di un metaforico dizionario sartoriale, che apre il libro: «Rammendare: riparare un tessuto o una stoffa, livida, ferita, graffiata, rotta, devastata».

A far da sfondo, mai ricordate da Prado Bassi ma ineludibili, le presenze fantasmatiche delle messicane morte nella fabbrica tessile di Chimalpopoca, un edificio pericolante e abusivo crollato nel 2018; delle cucitrici perite nel crollo del Rana Plaza nel 2013, in Bangladesh; delle donne e delle ragazze scomparse nell’incendio della Triangle Shirtwaist Company di New York nel 1911 (l’otto marzo nasce e continua a nascere dai loro corpi bruciati).

La voce di Mercedes, però, è anche quella della burla, della rabbia, della gioia, della consapevolezza, dell’abilità, di un legame tra donne che va e viene come l’ago nella stoffa, delle piccole rivincite che ciascuna e tutte si prendono su sorveglianti e padroni. In (D)istruzioni per l’uso di una macchina da cucire, Prado Bassi è riuscita a concentrare tutto questo: non solo forbici che tagliano e separano, ma fili che possono unire, legare, tessere, aiutare a resistere.


(Il manifesto, 13 gennaio 2024)

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