14 Febbraio 2023
la Repubblica

Monique Wittig. Essere lesbiche non è fare sesso. È fare politica

di Chiara Valerio


«Tu nel momento stesso in cui non sei altro che un’impressione un’insistenza nel m/io corpo… i/o ti chiedo di lasciarti vedere, di domando di lasciarti toccare».

È probabile che Monique Wittig – scrittrice e teorica francese, lesbica, scomparsa vent’anni orsono il 23 gennaio 2003 a Tucson, dove insegnava letteratura francese e studi di genere – abbia scritto ciò che ha scritto troppo presto. Il suo primo romanzo L’opoponax – pubblicato per la prima volta nel 1966 (Einaudi, trad. C. Lusignoli), uscirà presto in una nuova traduzione di Laura Piperno per Luiss University Press – vince il Prix Médicis e racconta la storia d’amore tra due adolescenti. È il 1964 e, del romanzo, Marguerite Duras dirà che è un capolavoro, il New Yorker, quando il libro uscirà in America, ne sottolineerà le prodezze linguistiche e la New York Times Review of Books strillerà che la migliore definizione è «uno smagliante rientro nell’infanzia». Quando, insomma, Monique Wittig, nata nel 1935 in una famiglia modesta e conservatrice a Dannemarie, paesino dell’Alto Reno, irrompe sulla scena letteraria, se ne accorgono tutti. Nathalie Sarraute dirà: «probabilmente non sarò qui a testimoniarlo, ma vedrete tra venti o trent’anni che scrittrice abbiamo premiato oggi». Monique Wittig voleva essere chiamata “scrittore”.

Amore, prodezze linguistiche, infanzia, dunque trasformazione, rimarranno caratteristiche fondanti e motrici di tutta l’opera di Wittig – sia letteraria che teorica, teorica perché letteraria – talmente presenti che quando nel 1973 esce Il corpo lesbico, non tutti – e, in questo tutto, la comunità lesbica – capiscono che per Wittig il lesbismo non è solo un orientamento sessuale ma una pratica politica. Wittig lavora sui pronomi, cerca la scomparsa dei generi, scrive all’impersonale, smantella i generi grammaticali per tentare di intaccare le gabbie di genere nella società. Forse è troppo presto, oggi aggettivi come fluido o queer sono componenti di una riflessione che non riguarda solo le comunità omosessuali e gli studiosi e le studiose di genere. Corpi che mutano in nuove forme. Lavorare sui pronomi, in parole forse troppo povere, significa rifiutarsi che il maschile faccia funzione di neutro, si appropri dell’universale.

Il 26 agosto 1970 Wittig è nello sparuto drappello di militanti che depone una corona di fiori alla memoria della moglie del milite ignoto, sotto l’Arc de Triomphe a Parigi. Il gesto, la performance diremmo oggi, segna la nascita del movimento femminista francese.

Sei anni più tardi, Wittig lascia la Francia per gli Stati Uniti, in rotta con le compagne del movimento, o si mette in discussione l’eterosessualità come modello sociale, o non si va da nessuna parte, ribadisce che lesbismo è pratica politica e non solo orientamento sessuale.

La prima traduzione italiana de Il corpo lesbico esce nel 1976 per le Edizioni delle donne tradotto da Elisabetta Rasy e Christine Bazzin e fino a oggi era l’unica disponibile (e introvabile). Deborah Ardilli, autrice della nuova, smagliante traduzione per VandA edizioni, chiede per essa «una carità ermeneutica» perché oggi abbiamo un vantaggio prospettico e sappiamo cose che nel 1976 era impossibile sapere o accettare. «In un mondo dove noi non esistiamo se non ridotte al silenzio, dobbiamo, in senso proprio nella realtà sociale e in senso figurato nei libri, che ci piaccia o no, costruire noi stesse… in un’epoca in cui gli eroi sono passati di moda, diventare eroiche nella realtà, epiche nei libri».

Questa frase di Wittig è in esergo alla precisa e appassionata introduzione di Ardilli – traduttrice e studiosa di teoria politica e storia dei movimenti femministi – che introduce il romanzo, lo colloca fuori del solco dell’«enfatica messa in scena dell’amore tra donne» ponendo l’accento sul valore politico del testo.

Tuttavia, l’enfatica messa in scena dell’amore tra donne è il motivo per cui io, a metà degli anni Novanta, prendo in mano Il corpo lesbico. Ero al liceo e speravo il libro dicesse qualcosa di me. Che è il motivo per cui si leggono i libri ed è la ragione per cui i libri servono in mezzo alle persone e non sulle isole deserte. Il testo mi aveva straniata – spatriata diremmo oggi grazie a Mario Desiati – per la struttura a pannelli, e per certe parole stampate enormi che rompevano la monotonia delle righe. La prima osservazione è che il corpo lesbico è un corpo, di tendini, organi, ossa. E già questo, per chi pensa di essere strano e diverso, è tranquillizzante. La seconda osservazione è che il corpo lesbico è un corpo che muta, mitologico per come siamo abituati a pensare le mitologie, cioè possibilità e metamorfosi. La terza è che le metamorfosi coprono tutti i regni e tutti i mondi, sono animali e inorganiche, nell’ambito dell’inorganico si va da ciò che esiste a ciò che l’essere umano ha fatto, dalle pietre insomma, alle statue. È un cantico dei cantici moderno e nel quale scorre il sangue anche se non si è feriti. La quarta osservazione è che gli eroi sono e possono essere declinati al femminile. La quinta è una prassi: «I/o ti cerco m/ia radiosa in mezzo all’assemblea». Chi leggerà il libro oggi troverà un testo diverso da quello che ho letto io, un libro trionfante, che mischia i generi e rompe la grammatica, righe di rivoluzione ed ebbrezza.

Thomas Simonnet, direttore delle Éditions de Minuit, editore francese di Wittig, in un’intervista a Nathalie Crom per Télérama del 3 gennaio scorso ha dichiarato: «Le vendite dei suoi libri sono aumentate a partire dal 2018. Limitandosi ai primi due, sono aumentate di dieci volte: L’opoponax è passato dalle 100-150 copie all’anno alle 1500-2000, quelle de Les Guérrillères da 250-300 copie a 2500-3000». Dunque, bentornata anche in Italia Monique Wittig.


(la Repubblica Cultura, 14 febbraio 2023)

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