17 Gennaio 2021
Il Sole 24 Ore

Muse ribelli: da Calliope a Elena, ecco la rivincita delle donne del mito

di Manuela Perrone


Omero è vecchio, la testa china, le spalle curve. Ha gli occhi chiusi. «Cantami, o musa», dice con voce risoluta. Ma lei, Calliope, la musa che invoca, mica è dell’umore giusto. Con tutti quegli uomini a pretendere la sua attenzione, con tutti quei poeti che pensano solo a se stessi, con tutto quello che di epico è già stato raccontato: guerre, città assediate, villaggi distrutti, viaggi, naufragi. E allora canta, sì, ma la parte nascosta della storia della guerra di Troia: le donne. «Gli sto offrendo la possibilità di vedere la guerra da entrambi i lati». Gli sta aprendo gli occhi.

Arriva in libreria il 21 gennaio per Sonzogno “Il canto di Calliope” di Natalie Haynes, tradotto da Monica Capuani. Leggendolo, non si fa fatica a capire perché sia stato inserito nella shortlist del Women’s Prize for Fiction 2020 né perché sia stato segnalato tra i migliori libri del 2019 da The Guardian e The Times. È una rivisitazione letteralmente rivoluzionaria della guerra di Troia, se per rivoluzione intendiamo il grido dove prima c’era silenzio. Contro il silenzio delle donne e sulle donne, Haynes-Calliope si prende la rivincita. E snocciola a Omero i vissuti che erano rimasti ai

margini, le eroine mai considerate quanto gli eroi, i tormenti delle troiane e delle greche, delle umane e delle dee. Se il poeta si lagna («Devono proprio morire tutti?»), la musa si arrabbia: «Le morti degli uomini sono epiche, le morti delle donne sono tragiche: è questo il problema?».

Sfilano nelle pagine Creusa, la regina Ecuba, Polissena, Andromaca, Teano, l’amazzone Pentesilea, la turbolenta Criseide e la magnifica Briseide, esistenze funestate da lutti e abbandoni. «Quando finisce una guerra, gli uomini perdono la vita. Le donne perdono tutto il resto». Cassandra, sulla spiaggia dove attendono il loro destino di schiave, trema «per la voglia di gridare che lei l’aveva detto cento, mille, diecimila volte. E che nessuno di loro era mai stato a sentirla, neanche per un istante»: vedere il futuro è la sua maledizione, la condanna a una solitudine straziante. Ecuba accusa Elena: la colpa è tutta sua, che da donna sposata non ha respinto suo figlio Paride. Anche «Paride era un uomo sposato», replica Elena.

«Perché tutti se ne dimenticano sempre?». L’intramontabile “due pesi, due misure” e l’altrettanto intramontabile “Eva contro Eva”: le donne non si perdonano neppure un’unghia di quello che perdonano agli uomini.

C’è da capirle. Non esiste chi non si racconta: niente specchi, niente identità, nessuna genealogia. Quale complicità è mai possibile? Scrive Penelope nelle sue lettere senza risposta a Ulisse: «Tutti i poeti cantano il coraggio degli eroi e la grandezza delle vostre imprese: è uno dei pochi elementi della vostra storia su cui sono concordi. Ma nessuno canta il coraggio richiesto a quelle di noi che sono state lasciate a casa». Ed è una realtà distorta quella raccontata a metà. Calliope rimbrotta Omero: o il poeta tiene conto e racconta anche il dolore delle donne «che sono sempre state relegate ai margini della storia, vittime degli uomini, scampate agli uomini, schiave degli uomini» oppure «non racconterà un bel niente». Hanno aspettato il loro turno anche troppo, le donne. E perché? «Perché troppi uomini continuano a raccontarsi tra di loro le storie di altri uomini».

Ribalta la prospettiva unica del maschile ricorrendo alla polifonia del femminile anche Marilù Oliva con «L’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre» (Solferino). Ulisse è l’oggetto del racconto, le donne della sua avventura sono il soggetto. Il tema non è il viaggio di un uomo, ma le relazioni che lo costellano e ne scandiscono le tappe. La dea ex machina è Atena, che ammette la sua predilezione per Ulisse e la sua stirpe e la sua preoccupazione per Telemaco: «Crescere tra gente tracotante non ti lascia scampo. Ti spezza le ossa». È Atena a incoraggiare padre e figlio a fare ciò che devono: la grande donna dietro i grandi uomini. Ma è Penelope la vera roccia, il fulcro intorno al quale ruota il mondo: «Quanto a solidità, l’ho costruita in gran parte da sola, come capita sovente a noi donne. Ho cresciuto mio figlio, ho cercato di governare con giudizio, di tenere conto delle voci degli anziani». Non è in questa cura del futuro e del passato la straordinaria differenza del potere femminile?

Se la forza del libro di Oliva è l’estrema perizia filologica e la fedeltà al testo originale dell’Odissea, di cui ha cambiato soltanto l’impianto narrativo iniziale, elementi che rendono ancora più potente la riscrittura dalla parte delle donne, “Il silenzio delle ragazze” di Pat Barker (Einaudi), tradotto da Carla Palmieri, tenta un’operazione diversa: restituire l’orrore delle violenze dell’Iliade dando voce al non detto, rivelando la realtà offuscata dall’epica. L’incipit suona come un manifesto: «Il grande Achille. Il luminoso, splendido Achille; Achille simile a un Dio. Montagne di epiteti che le nostre labbra non hanno mai pronunciato. Per noi era solo un macellaio». Sono stati gli uomini a tessere le lodi degli eroi, le donne nel mito non hanno avuto parola.

Barker fa allora parlare Briseide, in tutta la sua complessità: lucida, chirurgica. I massacri e i saccheggi non sono nobilitati, men che mai gli stupri. La schiavitù è schiavitù, senza infingimenti. La prima notte con Achille è una violenza piatta e frettolosa. «Mi provò», dice Briseide, come avrebbe provato un’armatura se il suo premio fosse stato quello. Le 344 pagine del romanzo spostano sul margine e dal margine il punto di vista sulle gesta degli eroi greci: è così che vediamo «la curiosa mescolanza tra ricchezza e squallore», il sesso smisurato e bestiale «ma privo di tenerezza», il modo in cui ogni donna – oggetto, premio, sfogo – «cercava di resistere a suo modo», l’intimità forzosa che Briseide costruisce con Achille, il responsabile del massacro di suo marito e dei suoi quattro fratelli, la terribile morte di Astianatte e quella di Polissena, con uno squarcio nella gola. Riflette Briseide quando cerca di dare degna sepoltura al cadavere: «Dava l’impressione che avesse due bocche, entrambe silenziose. Alle donne si addice il silenzio…». L’unica via di Briseide per uscire dalla storia di Achille è prendere parola, levare la sua voce. Ma non si può chiudere il cerchio senza tornare a Elena. Ne “Il canto di Calliope” Haynes fa dire a chi la guarda che «c’era qualcosa di non umano nei suoi capelli dorati, nella pelle trasparente, negli occhi scuri, nei vestiti scintillanti. Era difficile descriverla quando non era presente, come se lo sguardo non potesse trattenere il ricordo di una simile perfezione». In “Elena di Sparta” Loreta Minutilli (Baldini+Castoldi) dà la parola proprio a lei, la più odiata, l’origine della guerra. «Il conflitto esiste da quando esisto io», esordisce. E non si riferisce soltanto a Troia, ma all’eterno sconquasso che provoca la bellezza femminile, un potere che spesso le donne non sanno gestire e che le altre non sanno riconoscere.

Con una lingua scarna, senza fronzoli, Minutilli descrive la prigione del corpo, persino quando è perfetto, anzi forse ancora più soffocante. «Ero tutta corpo, esattamente come mi avevano voluta», ricorda Elena della sua giovinezza. «L’unica mia consapevolezza era il mio corpo, non sapevo fare nulla, il mio cervello era quello di una mosca». Accudire le sue forme l’unica competenza, l’aspetto fisico unico metro con cui è capace di giudicare le altre. «D’altra parte, nessuno aveva mai dato mostra di trovare altre qualità in me».

La bellezza è un elisir di salvezza in un mondo di uomini, ma non le risparmia le loro violenze né la solitudine, l’invidia e il disprezzo delle donne. Nella narrazione di Minutilli, Elena accetta di seguire Paride incantata da un sogno di liberazione, mossa dalla curiosità dell’«inimmaginabile libertà che avrei avuto a Troia, la mitica città senza ginecei». «Volevo scegliere, volevo rischiare», dice. Non per passione, ma per «una forza tanto più viva e tanto più fredda: quella della mia mente». Muoversi dalla periferia al centro della storia, autodeterminarsi. Il prezzo sarà enorme: è questa la colpa delle donne che il mito tramanda di generazione in generazione? «Era l’unico modo perché tutti vedessero che ero una persona», confessa Elena a Menelao. L’unica possibilità per viaggiare, «per provare l’altra metà della vita». Forse, alla fine, riusciamo a perdonarla. E a perdonarci.


(ilsole24ore.com, 17 gennaio 2021)

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