10 Novembre 2013
Alias

NABOKOV L’AMERICANO

La vicenda di Adam Krug, filosofo impolitico di grande fama che si ritrova ostaggio di una rozza dottrina egualitaria, detta «Ekwilism»

di VALENTINA PARISI

In un immaginario atlante della letteratura russa anche le pozzanghere – ignorate dai cartografi per la loro indubbia transitorietà – potrebbero vantare una posizione di rilievo accanto a specchi d’acqua più blasonati, almeno da quando Nikolaj Gogol’ decise di elevare ironicamente a segno

distintivo della città ucraina di Mirgorod quella gigantesca quanto inestinguibile pozza che ne occupava quasi tutta la piazza principale: «Meravigliosa pozzanghera! Case e casette, che da lontano si possono scambiare per biche di fieno, la circondano, e stupiscono della sua venustà». Capace di riflettere l’universo intero a partire dalle catapecchie sbilenche che la cingevano, l’iperbolica pozzanghera di Mirgorod sarebbe riaffiorata in forma assai più frammentaria

sui marciapiedi berlinesi invariabilmente lucidi calcati negli anni Venti dall’esule Vladimir Nabokov, diventando – insieme a specchi, vetrine e occhiali – ricettacolo privilegiato

degli sdoppiamenti sperimentati dai suoi protagonisti. Ma se in Gogol’ il rovescio speculare del mondo era popolato, in ossequio alla tradizione, da creature fantasmatiche quali ondine e coboldi, nelle opere mature di Nabokov il tema quasi ossessivo dell’inversione ottica, pur continuando a essere fonte inesauribile di illusioni grottesche, assume un significato endoletterario sempre più evidente, elevandosi a metafora dei rapporti tra autore e personaggio. Ne è una prova Bend sinister, primo romanzo scritto da Nabokov sul suolo americano tra il 1942 e il 1946, e ora proposto da Adelphi con il titolo Un mondo sinistro (traduzione di Franca Pece, pp. 259, €18,00) dopo che I bastardi, l’edizione curata per Rizzoli da Bruno Oddera, non era stata più ristampata da decenni. Già la varietà di soluzioni escogitate per rendere il titolo dà un’idea della densità semantica di questo congegno narrativo in sé perfettamente concluso, nitido e al tempo stesso ineffabile, che ricorda i cerchi concentrici in rapido dissolvimento prodotti da un sasso gettato in una pozzanghera. Immagine questa che, appena turbata dalla caduta di un paio di foglie, compare nell’incipit per poi riaffacciarsi puntualmente alla fine, quando il demiurgo Nabokov esce alla ribalta onde richiamare gli attori – come egli stesso preannuncia nell’introduzione – ossia per congedare i propri personaggi e disperdere così la finzione fabulare testé orchestrata.

Tra le due apparizione di questa enigmatica pozzanghera, «foro spatoliforme attraverso il quale si vedono gli inferi del cielo», si snoda la vicenda del povero Adam Krug, filosofo di fama mondiale, nonché individuo sommamente apolitico, ostaggio suo malgrado del grottesco regime autoritario instaurato dall’ex compagno di scuola Paduk, soprannominato confidenzialmente il Rospo, in nome di una rozza dottrina egualitaria, detta per l’appunto «Ekwilism». Da qui l’interpretazione in chiave distopica attribuita al romanzo e alimentata in parte dallo stesso Nabokov, là dove a guisa di ironico omaggio ai due massimi stati di polizia del Ventesimo secolo (e a fini chiaramente stranianti) impone ai suoi personaggi di parlare a sprazzi vuoi in russo, vuoi in tedesco, lingue che stravolge fino a ottenere un idioma totalitario alquanto incomprensibile. Tuttavia qualsiasi eventuale accostamento a Orwell viene respinto – ancor più che dall’arcigno commento dell’autore nella prefazione – dal tono di straordinaria leggerezza che Nabokov conferisce alla sua narrazione. L’unico registro in grado di mettere alla berlina il regime da operetta di Padukgrad, smascherando la sua irrimediabile, gogoliana poslost’ (banalità). Se è facile immaginare come all’inizio Krug

non avesse ostentato altro che indifferenza verso l’irresistibile ascesa al potere dell’ottuso Paduk,

la perdita dell’amatissima moglie Ol’ga lo rende indifeso di fronte alle richieste di collaborazione

che il nuovo governo gli avanza con insistenza sempre maggiore. Benché il protagonista sfoderi una impenetrabilità tetragona rifiuta di firmare una supplica del rettore che scongiura il Rospo di non chiudere l’università cittadina, fondata su «Scienza e Amministrazione »), da lì a breve gli emissari di Paduk riusciranno a individuare quel lato della sua personalità su cui far leva – o, meglio, recuperando il sottile gioco di parole andato perduto nella traduzione, a scorgere quell’«impugnatura» nascosta che trasforma il filosofo da un inespugnabile «cerchio» (questo il significato del suo cognome in russo) in un ben più maneggevole «boccale» (secondo la lettura tedesca dello stesso termine Krug). Questa leva è l’adorato figlio David, incantevole monello

di otto anni, cui Nabokov attribuisce tratti di capricciosa spensieratezza altrove riferiti al proprio rampollo, Dmitrij. A momenti idillici di fuga nel passato (su tutti lo splendido capitolo nono, dedicato all’incontro mancato con la futura moglie) si alternano attimi in cui il protagonista si sente in dovere di risvegliarsi dall’incubo in cui crede di essere intrappolato, poiché le guardie rivoluzionarie di Paduk si dimostrano «quanto mai convenzionali» e arrestano uno dopo l’altro tutti i suoi amici. In realtà, solo l’intervento compassionevole del deux ex machina autorialemetterà

fine allo strazio del filosofo, consegnato alla follia dalla consapevolezza di non essere stato in grado di proteggere il figlio e di aver decisamente sopravvalutato la propria intangibilità

di uomo apolitico.

Al netto della propria innata freddezza, Nabokov sembra nutrire una particolare pietas nei confronti di Krug, cui elargisce dettagli inequivocabili della propria biografia, non fosse altro perché negli anni Quaranta all’autore trincerato a studiare farfalle nel «paradiso» per lepidotterologhi

allestito nel museo zoologico di Harvard doveva di tanto in tanto profilarsi l’interrogativo circa cosa sarebbe stato di lui, se non fosse riuscito ad abbandonare prima la Russia sovietica, poi la Germania nazista con tanto di moglie ebrea al seguito e, infine, nel maggio 1940 Parigi, in procinto di

cadere in mano ai tedeschi. Il fascino di questo testo impeccabile risiede d’altronde dell’inestricabilità tra Dichtung e Wahrheit, divenute ormai indistinguibili in virtù di un

rigoroso procedimento alchemico. Sicché al filosofo in crisi viene «prestata » l’immagine della vita umana sospesa come in una culla tra l’abisso immemore che precede la nascita e quello post mortem, non meno misterioso, che, guarda caso, apre l’autobiografia Conclusive Evidence, iniziata

proprio nel 1946. E, ancora, Pietroburgo, città natale dell’autore, si riflette specularmente nel doppio onirico e grottesco di Padlukgrad, dove la casa dei Nabokov a due passi dalla «cattedrale dalla cupola bronzea» di Sant’Isacco viene proiettata sulla mappa urbana a nord anziché a sud,

così come pure l’imponente residenza del Rospo, «ridipinta» in una tonalità rosa opposta nello spettro al verde caratteristico del palazzo d’Inverno (suo prototipo). D’altro canto, la poetica del rispecchiamento  pervade tutta l’opera a partire dalla scena in cui Krug, dopo la morte della moglie, percorre avanti e indietro il ponte sul fiume Kurche taglia in due la città, finché non ottiene un salvacondotto a nome di un certo Gurk (il suo stesso cognome letto al contrario).

Ogni personaggio letterario – questo il suggerimento di Nabokov – vive di una vita riflessa, prigioniero di quel peculiare rovescio della realtà circoscritto dalla superficie riflettente

di una pozzanghera o dalla macchia similmente oblunga del Bend sinister, in araldica la tipologia di stemma in cui la sbarra trasversale corre dall’estremità superiore sinistra a quella inferiore destra, come a denotare un rapporto di filiazione bastarda in opposizione al risvolto «corretto» del bend dexter. Ma agli eroi prediletti – e Krug è certamente tra questi – è concessa la possibilità di intravvedere, in attimi di singolare chiaroveggenza, il proprio «osservatore interno », «la mente che sta dietro lo specchio », la mano dell’autore-burattinaio. Mentre ai lettori non si chiede

altro che di stare, ammirati e riconoscenti, al gioco.

 

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