11 Ottobre 2023
il manifesto

Nel trascorrere irriverente dell’età

di Alessandra Pigliaru


Che la vecchiaia sia un tema presente nella discussione pubblica internazionale, non lo si deve solo all’attenzione che da anni gli Age Studies assicurano, quanto piuttosto a un intrecciarsi nelle forme della rappresentazione con i capisaldi dell’umano vivere capaci di declinarne i contesti, da quello lessicale a quello sessuato. Considerando alcuni libri editi in questo ultimo anno, ci accorgeremmo di quanto la trasversalità sia d’obbligo.

Lidia Ravera nel suo Age pride. Per liberarci dai pregiudizi sull’età (Einaudi, pp. 101, euro 13) propone per esempio «un nuovo titolo di merito» preferendo al termine anziano/anziana quello di Grande adulta o Grande adulto. E prosegue dicendo che nonostante l’attribuzione qualitativa tenda a immaginare persone «serene», ci si potrebbe sincerare come non lo siano affatto, «neppure rassegnati: inquieti» perché «sono corpi che conoscono le carezze, hanno imparato a farne a meno, ma anche a inventarne di nuove, diverse. Sono anime in prova, alle prese con la durata, alcune sono tormentate, altre soddisfatte. Ci sono le anime placate, ma ci sono anche le anime furiose. Ciascuno invecchia a modo suo, fedele alla sua storia, alla sua identità, al suo carattere».

Restando tuttavia sull’aggettivazione dell’essere adulti, anche Gabriella Caramore nel suo L’età grande (Garzanti, pp. 144, euro 14) racconta di una ampiezza, al netto di quanto la vecchiaia si leghi più facilmente al tempo. Ha quest’ultimo un aspetto ineluttabile, osserva la sua fine, la sua chiusura, e non è un caso che una delle più prestigiose manifestazioni culturali italiane quale è Torino Spiritualità, conclusasi pochi giorni fa e dedicata «Agli assenti. Della morte ovvero della vita», abbia scelto di presentare il libro di Caramore (in conversazione con Elena Loewenthal) dando alla parabola terrestre l’accezione temporale e spaziale che la designa.

Che i processi di invecchiamento restituiscano un quadro ben più generativo di quanto fornitoci dal senso comune lo si assume da diversi lavori, tra quelli di carattere antropologico si può vedere il volume a cura di Jacopo Favi, Invecchiare (Meltemi 2021). Anche Barbara Leda Kenny, in un lungo articolo di qualche mese fa su «L’essenziale» ragionava del mutamento e della trasformazione di scenario, soprattutto in Italia e a proposito delle donne anziane (erano 4,5 milioni quelle sole, soprattutto vedove) con cui si potrebbe auspicare un modello diverso di convivenza e di famiglia.

Sta di fatto che in una dimensione anzitutto del «sentire» la propria carne attraversata da ciò che è stato e ciò che arriverà, il nodo del presente si affaccia per dipanarsi in scritture letterarie, che spesso si ibridano tra il memoir, l’autobiografia e la prospettiva della storia culturale, come accade in La quarta parte, di Luisa Passerini appena uscito per manifestolibri (pp. 112, euro 12) in cui la vecchiaia è luogo frequentato dall’autrice da svariati anni. Già nel 2006 nella rivista «Storia delle donne» (Firenze University Press) dava conto, tra le altre cose, dell’affacciarsi anche in Italia, alla fine degli anni Novanta, di alcune ricerche sulla necessità di sessuare la vecchiaia. Ciò per dire che La quarta parte ha una tale struttura teorica alle sue spalle che sarebbe riduttivo collocare questo agile e utile volumetto come un memoir, cominciato nella primavera del 2020 e concluso nell’inverno successivo.

Al centro vi è una donna che accompagna la coscienza dei suoi ottant’anni con Dante Alighieri, Agnès Varda e David Hume, aprendo degli squarci che vanno dunque dalle lettere al cinema e alla filosofia, nel corpo a corpo con alterne passioni, compresi vizi e virtù, tra cui spicca la temperanza. Specificata nella sua raffigurazione sapiente di arcano maggiore in cui c’è una figura femminile che travasa dei liquidi da una brocca a un’altra. In quest’operazione che Passerini identifica di mediazione, collegamento ed equilibrio, si sgrana ciò che connette e mescola «gradi di rilevanza e irrilevanza». E, potremmo aggiungere, nonostante tutto ha tenuta, in una pratica come quella di trasferire, trasmettere. Che cosa ci consegna invece il sapere critico delle donne è materia che Passerini maneggia perfettamente, coinvolgendo diversi campi di competenza, come accaduto nel lavoro collettivo Vecchie allo specchio. Rappresentazioni nella realtà sociale, nel cinema e nella letteratura (pubblicato dal Cirsde nel 2012), insieme a Edda Melon, Luisa Ricaldone e Luciana Spina.

Si trattava di una indagine avviata da alcuni incontri avvenuti tra il febbraio e il marzo del 2008. E che le pratiche torinesi siano floride in tale versante tematico lo si evince anche dal volume che Ricaldone ha dato alle stampe per Iacobelli editore nel 2018 dal titolo Ritratti di donne da vecchie (recensito su queste pagine da Laura Fortini). Se non si possono non segnalare i libri di Loredana Lipperini, Non è un paese per vecchie (2010), quello a cura di Anna Maria Crispino e Monica Luongo, Passaggi d’età (2013) e di Francesca Rigotti, De senectute (2018), sono ugualmente utili volumi più recenti che interrogano da un’angolatura ogni volta differente il significato dello scorrere delle età. Insieme al romanzo di Fuani Marino, Vecchiaccia (Einaudi, pp. 160, euro 17), ci sono due sillogi che si misurano con alterne geografie sentimentali di un certo rilievo: la prima è una raccolta di racconti scritta da Jane Campbell che si intitola Spazzolare il gatto (Edizioni Atlantide, pp. 168, euro 17,50, traduzione di Federica Bigotti). La seconda è invece in versi ed è L’amore da vecchia, di Vivian Lamarque (Mondadori, pp. 160, euro 18). Campbell, di origine inglese, ha esordito con il primo racconto in rivista all’età di 77 anni diventando presto un caso di culto, e ora ci dona tredici magnifici ritratti di altrettanto donne che confessano la propria audacia senza nascondimenti.

A cominciare dal primo in cui una ottantaseienne degente in un reparto di geriatria, dopo aver condotto una moderata esistenza coniugale, osserva una giovane donna che si allunga per cambiare una lampadina e, senza preavviso alcuno, sente «la voglia risvegliarsi tra i lombi appassiti». O ancora quando sollecita, più avanti: «Adesso non possiedo nulla, tranne, suppongo, il mio corpo e la mia mente, così come sono dopo numerosi decenni di utilizzo. Mal-utilizzo, talvolta. Ma almeno, grazie a Dio, sono stati utilizzati e non li ho sprecati. Certo questo a mio figlio non posso dirlo». Non mancano le cliniche della memoria, dolori piuttosto lancinanti e niente è facile, Campbell neppure si presta a una retorica senza costrutto per scacciare via l’angoscia della morte. Racconta invece di una sfrontatezza capace di erodere l’imbarazzo. «Invecchiare – prosegue la scrittrice – è spesso descritto come un accumulo, di malattie, sofferenze, rughe, ma è in realtà un processo di espropriazione, di diritti, di rispetto, di desiderio, di tutte quelle cose che una volta possedevi e di cui godevi con tanta naturalezza».

Il graffio, al contempo tagliente e delicato, è ciò che invece indaga Vivian Lamarque che, nelle sue poesie, nomina l’amore transitorio e non esclusivo che si promette al vivente. «Sono una Autunno./ Anzi, il tempo di dirlo/ e ora sono una Inverno. Che paura fossi una foglia ma/ menomale sono un’alberella/ le foglie loro cadono, ma noi/ no». E parla di scomparsi che non possiamo più toccare ma che sentiamo nella testa, con la stessa identica voce ad ammonirci che dobbiamo andare altrimenti si fa tardi, eppure non c’è un domani, non tutti i ritorni sono possibili. «Perché non sono un baobab e questa è l’infanzia?» si domanda Lamarque. «Numero d’anni avere davanti quante le stelle sulle teste/ degli alberi. E giorni ancora di più./ Agli anni preferisce i giorni e ai giorni i mattini […] Metterli in banca metterli in banca i giorni risparmiarlo/ il Tempo […] Teneteli a cuore i mattini metteteli in banca./ Però anche vecchiaia è bellezza, capelli color/ della neve, pelle rigata come belle cortecce e alcuni che ti vogliono bene e alcuni che ti cedono il posto in tram». L’ironia agrodolce è nel post-scriptum, certo senza reclamare comprensione eppure «Ma perché non avete tutti 80 anni come me?».


(il manifesto, 11 ottobre 2023)

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