4 Novembre 2020
Tamu Edizioni

Neri rispettabili e vite che non contano

di Maria Nadotti


Questo testo è un estratto da Sensibilità condivise. Leggere bell hooks pensando a noi, l’introduzione al libro Elogio del margine / Scrivere al buio di bell hooks e Maria Nadotti, in uscita per Tamu Edizioni il 16 novembre, proposto in anteprima dal sito della casa editrice. 
 
[…] Come si guarda e cosa si vede quando si guarda? Che effetti ha lo sguardo egemone sulla percezione che ha di sé colui/colei che viene osservato ma non visto, alla lettera “allucinato”? 
Sono domande più che mai attuali, che si ripropongono con forza alla vigilia delle prossime elezioni presidenziali statunitensi. Marcata da un’inquietudine sociale esplosiva, da un’irrespirabilità di cui la pandemia in corso è una lugubre letteralizzazione, la campagna che vede Donald Trump/Mike Pence contrapposti a Joe Biden/Kamala Harris, è improntata a una vis propagandistica bilaterale dalle conseguenze potenzialmente nefaste. Se i repubblicani hanno scelto di confermare i propri candidati e la loro chiassosa volubile linea, i democratici hanno optato per un abbinamento che ha i tratti dell’audacia e la sostanza della convenienza: un bianco anziano e moderato, l’uomo in seconda del quasi-nero Obama, e una donna di colore, anche se non proprio africana-americana, attualmente senatrice per lo stato della California, un passato da ex-procuratrice distrettuale di San Francisco che ha indotto alcune aree dei movimenti neri nordamericani a ribattezzarla Copmala.  
Ma, come scrive Keeanga-Yamahtta Taylor, ricercatrice presso l’Università di Princeton nel dipartimento di African American Studies: «dopo otto anni di Obama, una faccia nera in una posizione elevata non basta più». 
Ed è qui che l’analisi di bell hooks si rivela oggi più preziosa che mai: la sua passione di verità, che non è mai un fatto astratto e/o ideologico, una teoria dai piedi freddi, si traduce in un invito pressante ad andare al di là di quel che sembra, a mettere in discussione proprio la rappresentanza e i suoi seducenti inganni figurali, a ragionare su quella nuova tecnica di sterminio razziale e di classe che consiste nel contrapporre i neri “rispettabili” ai neri “cattivi”, gli African-American ai nigger. I primi/le prime, ormai armoniosamente parte del sistema, ne garantiscono il funzionamento, intonacandolo quanto basta per evitarne il collasso. La loro ammissione alle cariche più alte dello Stato, inimmaginabile anche solo vent’anni fa, non si è tradotta in politiche interne e estere più eque, in minore disparità sociale, in più diffusa giustizia. Il teorema delle quote – rosa, nere, verdi o blu che siano – ha dimostrato anche in questo caso di non essere ciò che afferma, ma ciò che produce: ridistribuire le carte invitando al tavolo da gioco alcuni “identici” dissimili (per sesso o razza, mai per classe) non migliora necessariamente la vita di tutte e di tutti né modifica l’immagine e la coscienza che essi hanno di sé. 
La sottomissione dei neri americani al dominio dello sguardo dei bianchi permane e lo stordimento indotto dalle immagini del consumo coniugate con un potere d’acquisto per i più pari a zero si traduce in invidia sociale, rabbia e depressione, raramente in rivolta. E la rivolta, come hanno dimostrato i moti degli ultimi mesi, scatenati dall’ennesima uccisione intenzionale di un nero per mano della polizia, può assumere la forma ibrida e vassalla del saccheggio e della devastazione e consumarsi in un fuoco di paglia.  
Slogan magnifici come «Black Lives Matter» – il movimento fondato da tre donne nere, Alicia Garza, Patrice Cullors e Opal Tometi nel 2013 (sì, sette anni prima dell’assassinio di George Floyd) – sono pure petizioni di principio in un’economia di scambio in cui non tutte le vite contano, perché alcune non hanno valore alcuno, anzi rappresentano un ingombro, una voce di spesa in più, un disagio sociale.  
Ecco perché bell hooks non riduce il suo discorso ai diritti, all’eguaglianza, e tantomeno alla “discriminazione positiva” e alla “correttezza politica”. Con tutta evidenza la condizione catastrofica dei neri non è un errore del sistema bensì una sua struttura portante. In America, come in molti paesi d’Europa che si pensano democratici, i nigger non sono necessariamente di pelle nera: corpi a perdere ridondanti e precariamente indispensabili, vanno, vengono, scompaiono in mare o nelle periferie urbane, si impigliano nelle false burocrazie assistenziali, non lasciano traccia di sé e sembrano non averne del proprio passato.  
Li vogliamo così, ci servono così.  
C’è nelle politiche in materia (negli USA la si chiama “questione razziale”, da noi “migratoria”, in Francia o Portogallo “postcoloniale”) una surreale continuità tra visioni che si dicono diverse, tra posizioni teoriche che si presumono opposte. Nigger e migranti sembrano aver messo d’accordo democratici e conservatori, destre e sinistre. O forse ne hanno semplicemente smascherato l’identica adesione al monocromo copione neoliberista, rivelando una società dove gli argini sono saltati, dove i più (e non solo gli esseri umani) sono obiettivamente a rischio, dove si fa un’enorme fatica anche solo a coltivare la speranza.  
È essenziale, ci ricorda bell, non abboccare alle esche di quella che negli anni sessanta e settanta fu definita senza giri di parole Blaxploitation e che oggi si manifesta nella bizzarra rivendicazione di una nerezza/africanità/alterità ricalcata sui cliché razziali e sessuali più classici. A guardare le pubblicità imbandite negli ultimi tempi da marchi quali Nike, Reebok, Adidas, blockbuster come Black Panther (sì, avete letto bene) diretto nel 2018 da Ryan Coogler, o il trailer di Black Is King, il nuovo “album visivo” della pop star Beyoncé, si nota con crescente disagio che la superiorità razziale nera esibita in maniera più o meno rozza in ognuno di questi testi visivi sembra frutto di neuroni specchio pigri o malandrini. Tra quelle rappresentazioni e la realtà durissima degli ultimi vent’anni – grossomodo dai primordi della crisi dei mutui subprime a oggi – non c’è neppure ombra di simbolico. Si tratta di immaginario allo stato puro.  
«Nel mondo attuale», come scrive Alain Badiou ne Il nostro male viene da più lontano, «ci sono poco più di due miliardi di persone delle quali si può dire che contano zero. Cosa vuol dire che contano zero? Vuol dire che non sono né consumatori, né forza lavoro». 
A loro è destinato lo “spettacolo del benessere”, di cui il narcotico corpo nero-gadget (merce di lusso/fulgida guerriera/mitico antenato) non è altro che il nuovo veicolo e la rivisitata forma.  
The business must go on e le vite nere continuano a contare zero.  
Eppure il tema della violenza agita, non subita, seguita a essere un tabù. Per trovare testi attuali che lo affrontino nella sua complessità, senza ipocrisie e con spregiudicata radicalità, non bisogna certo rivolgersi a uno dei nuovi “neri di servizio” amati da chi ha ancora troppo da perdere, ma all’abrasivo Childish Gambino di This Is America o al primo Jordan Peele, autore di Get Out, un film manifesto uscito nel febbraio del 2017, a un mese dalla conclusione del secondo mandato presidenziale di Barack Obama.  
«Vattene», un’intimazione a doppio senso, non è solo l’esortazione a scappare finché si è in tempo o un verdetto di esclusione: è il suggello di un’asimmetria e di un’incompatibilità. Nella casa bianca c’è posto per chi ha la pelle nera solo se è disposto a “prestare” il suo corpo, il suo cervello, il suo appeal ai bianchi, senza porre condizioni che divergano dalle loro. È una storia che va avanti da quattro secoli e che Peele porta con ironica brutalità alla ribalta: niente mediazioni e niente patti. Tu o io. Il pacificato noi collettivo invocato da chi ha scambiato il razzismo per conflitto tra pari e creduto in una possibile riconciliazione non può esistere. Unica, pragmatica risposta da parte dei neri: difendersi. 


(www.tamuedizioni.com, 4 novembre 2020)

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