3 Maggio 2006
Alias

Niccolai

Marco Belpoliti

È “enigma” la parola-chiave del libro autobiografico sul ritrovamento di sé, sull’arte e sul buddismo, al quale la Niccolai si convertì negli anni ottanta sino a farsi monaca: Da Magritte a Hopper a Hockney, anche il pensiero visivo cela un’esperienza spirituale.

Nel 1980, a quarantasei anni, Giulia Niccolai ha avuto un ictus, un’esperienza dolorosa da cui ha faticato a riprendersi, ma che è anche stata, con ogni probabilità, il punto di svolta della sua vita. Racconta di aver impiegato quattro, cinque anni per tornare alla piena normalità, per quanto il trauma le abbia lasciato degli strascichi. In quel periodo era appena tornata a Milano dopo gli anni di “Tam Tam”, la rivista di poesia diretta da Adriano Spatola, e traduce per mantenersi Gertrude Stein per le edizioni di Rosellina Archinto, un lavoro difficile anche per una bilingue come lei. Appena uscita dall’ospedale ha telefonato alla persona che seguiva in casa editrice il libro per dirle che non ce l’avrebbe fatta a consegnarlo per la data stabilita. Questa donna, racconta, le dice “Vado a sentire una conferenza di un Lama tibetano, vuoi venire?”. Siamo nel giungo del 1985 e l’appuntamento è a una fermata del metro. Giulia l’aspetta ma lei non arriva: Ha l’indirizzo e decide di andarci da sola. Entra nella sala e si siede in fondo. Il Lama sta parlando della ruota del tempo e mentre sviluppa la sua esposizione con voce pacata, Giulia prova la sensazione che il Maestro stia rispondendo via via alle domande che formula nella mente: attimo per attimo ecco la soluzione ai quesiti: Lascia la sala con l’impressione che lui le abbia letto nel pensiero: La sensazione è quella di essere tornata di colpo a casa dopo essere rimasta nella Legione straniera per cinquant’anni. Nel 1990, dopo un discreto apprendimento come buddista, Giulia Niccolai si è fatta monaca e a preso i voti in India. Adesso le due sponde della sua vita non sono più l’Italia e l’America, dice, come le era accaduto in precedenza – figlia di un italiano e di un’americana, ha scritto poesia per quarant’anni in entrambe le lingue, mescolandole e fondendole – bensì l’Oriente e l’Occidente.
A dire il vero, più che due sponde la sua figura topologica sembra il quadrato, i cui lati sono disposte a coppie, in quanto le cose più curiose della sua opera poetica e letteraria (ma anche della sua personalità, probabilmente) riguardano le relazioni tra le diagonali, La parola chiave del suo libro Le due sponde (Archinto pp. 282, Euro 12,OO) dedicato per eccellenza alla pittura e insieme alla sua vita, al Buddismo tibetano e al pensiero visivo, è enigma. Una parola manganelliana per eccellenza che figura nel titolo di due quadri di De Chirico che Giulia esamina e discute, non solo ricorrendo alla sua cultura, alla sensibilità visiva (è stata eccellente fotografa professionista intorno ai vent’anni, mestiere interrotto di colpo), ma soprattutto alla sua esperienza spirituale. L’enigma, era per Manganelli, il cuore di ogni classico, ovvero ciò che si occulta nel fondo della letteratura e che non si può ridurre a nessuna lettura filologica o critica: qualcosa di pulsante, di vivo, di misterioso qualcosa che interroga, come le linee intere e spezzate degli Yi Jing, dove possiamo leggere, se lo vogliamo, i sublimi mutamenti, il nostro destino. Una sera per strada, a Milano, Giulia vede passare un nuovo modello di tram che reca il numero 14: le figure illuminate all’interno delle carrozze, dietro grandi finestrini quadrati, le danno un tuffo al cuore. Ecco transitare l’essenza muta dei quadri di Hopper: Un’altra volta in America, immersa nella luce di Los Angeles, comprende all’improvviso cosa voleva dipingere David Hockney con le sue piscine: la pittura come specchio. Una delle grandi qualità di Hockney – scrive nel suo libro di note, appunti, riflessioni, piccole storie personali, illustrazioni di istanti, epifanie del pensiero – è di essere sempre consapevole dell’inautentico e dell’artificiale.
Come definire questo volume? Una riflessione sull’arte? Un diario di letture e viaggi? Un manuale di meditazione? Un’autobiografia? Senza dubbio è il libro di una poetessa: lo si capisce dallo stile, dal modo in cui è scritto, ma anche dal modo in cui è “pensato”; A un certo punto, nelle bellissime pagine su Hockney, cita una frase di Hannah Arent: “Le opere d’arte sono: cose del pensiero”. La “cosa”, per Giulia Niccolai, non è oggetto, bensì un contenuto del pensiero: un’esperienza spirituale. Su questa strada la poetessa probabilmente è andata più avanti dello stesso Manganelli, che dopo aver conosciuto l’enigma in modo concreto (“la cosa”) nel corso del suo viaggio in India (Esperimento con l’India, Adelphi) se ne è ritratto, l’ha fuggito, per poi ritrovarselo davanti, di colpo, negli ultimi mesi di vita. Giulia si è invece buttata dentro l’enigma, lo ha seguito sino in India, ne ha fatto la sua stessa “cosa”. Nel sottotitolo del libro è scritto Spazio/Tempo: indica le due sponde, insieme a Oriente/Occidente. Il tema del libro è infatti l’incontro con l’Eterno, tema spirituale per eccellenza (ma anche tema scientifico, come ci ha mostra la fisica atomica del ventesimo secolo, Wolfgang Pauli con il suo Psiche e natura, Adelphi). L’eternità come abolizione del tempo, argomento che la poesia insegue da secoli, e su cui ci si arrovella non meno della religione della scienza. Con la sua esperienza del mondo visivo Giulia Niccolai ha fatto un passo ulteriore, in quella direzione, alleggerendo ancora il suo fardello. Di meditazione in meditazione (ma si dovrebbe dire di poesia in poesia), tutto e diventato più aereo e sottile. Rispetto a Esoterico bigliardo (Archinto 2001) Le due sponde appare come il libro dell’infanzia del pensiero. La “cosa” a cui si sta pian piano avvicinando è infatti il passato remoto cui sembra indirizzarla la visione della pittura, i quadri di Megritte e Hopper, di De Chirico e Jim Dine, di Carracci e di Antonello da Messina le servono per questo. L’origine è davanti a noi: invecchiando si avanza retrocedendo.
Le pagine più belle del libro, pagine che cadono all’improvviso, come colpi di luce – la luce che come fotografa, poetessa e donna, Giulia Niccolai dimostra di amare fortemente – sono quelle in cui il mondo visto, diventa un mondo vissuto, esperienza di un attimo, illuminazione, rivelazione, enigma, appunto. Il capitolo dedicato a Duchamp è poi un sorprendente autoritratto. Di cosa hai vissuto? chiede Pierre Cabanne nella celebre intervista a Duchamp: Non lo so proprio, risponde l’artista. Cabanne insiste, e Duchamp gli dice: avevo dei Brancusi in soffitta, ho chiamato Roché e glieli ho venduti. Allora, continua, gli affitti costavano poco a New York, e conclude: “Vivere è più una questione di quanto uno spende pittosto di quanto una guadagna: bisogna sapere quanto ci serve per vivere”.
Henri -Pierre Roché, il mitico autore di Jules e Jim e di Le due Inglesi e il Continente, pubblicati a settant’anni suonati, sosteneva che l’opera migliore di Duchamp è stata l’uso che egli ha fatto del suo tempo.
Giulia Niccolai appartiene a quella genia di artisti, non solo perché è stata una poetessa della neoavanguardia, non solo per le belle e sorprendenti poesie che ha pubblicato (il suo Harry’s Bar del 1980, è uno dei migliori libri di poesia del dopoguerra) non solo per questo ultimo libro, ma anche dell’uso che ha fatto negli ultimi venticinque anni del proprio tempo: la meditazione. Si è fatta buddista e monaca non solo per ritrovare se stessa, la propria pace interiore, per liberarsi dall’Io, ma anche per essere fino in fondo un’artista. Una astuzia, o una ingenuità, la sua? Entrambe le cose, credo.

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