11 Novembre 2020
il manifesto

Nilde Iotti, politica e passione comunista

di Luciana Castellina


Conversazione dal volume «La reggitora»*, di Peter Marcias. Dal 12 novembre in libreria per Solferino, con le voci di Livia Turco, Marisa Rodano e altri che la conobbero.


La figura di Nilde Iotti è importante nella storia del Partito comunista italiano e quindi dell’Italia, visto che quel partito ha rappresentato tanta parte della società italiana. Dico importante perché Nilde Iotti è stata forse la prima donna, o meglio la prima dirigente del partito, che ha avuto quello che definisco il coraggio della normalità. Ai tempi, c’era ancora un po’ la mitologia della lotta della Resistenza, della clandestinità e quindi persisteva un’immagine stereotipata delle donne comuniste: arrabbiate, brutte e malvestite. Nilde invece aveva sempre avuto il coraggio di presentarsi come una donna normale, di vestirsi con accuratezza, di andare dal parrucchiere, con un portamento da signora di mezza età e non da suffragetta.

Sembra un elemento secondario, ma ha invece una rilevanza politica. Il punto ideologico era affermare che il Partito comunista era un normale fenomeno della società italiana e non una setta violenta che operava in clandestinità. Ben prima di conoscerla personalmente e di lavorare con lei, Nilde Iotti era per me un’icona di donna di sinistra. Per tanti anni ero stata direttora del settimanale della Federazione giovanile comunista, che era un po’ un mondo a parte, aveva pochi rapporti con il partito, in particolare con la sezione femminile di cui Nilde era responsabile.

Fui sorpresa, quindi, quando proprio lei mi chiamò per chiedermi se volevo entrare nel suo staff. Ebbi modo così di conoscerla molto meglio, scoprendo qualità che all’inizio, forse proprio perché era così diversa dallo stereotipo, non sospettavo: era una donna molto intelligente e molto curiosa delle novità, per niente sdraiata sull’evidenza delle cose, del tutto lontana dall’idea di una rigida vestale del partito. Mi lasciò fare cose che erano, per il Pci di allora, non solo discutibili, ma anche discusse.

La prima fu un convegno, in accordo con l’Istituto Gramsci, su famiglia e società nell’analisi marxista, in cui si riprese a partire da Engels tutta la discussione sul concetto di proprietà nella famiglia, un tema allora bollente e di stringente attualità. Nilde non solo mi lasciò organizzare l’evento come volevo, ma partecipò attivamente, sempre con la sua aria un po’ all’antica. Ho un altro bel ricordo di un momento difficile in cui mi fu vicina. Era il 1966 e, all’undicesimo congresso del Partito comunista, Pietro Ingrao fece un celebre intervento, esprimendo pubblicamente il dissenso verso la linea tenuta dalla segreteria. Era un evento enorme: per la prima volta, Ingrao interpretava quel vento di cambiamento che sarebbe divenuto inarrestabile di lì a due anni. Noi giovani diventammo tutti «ingraiani» e fummo tutti allontanati da Botteghe Oscure.

Nilde non solo non ci abbandonò, ma condusse per noi una furiosa battaglia in direzione (nonostante si fosse arrabbiata moltissimo anche con noi che non l’avevamo avvisata della nostra scelta). Alla fine, uscì dalla riunione e mi disse: «Ho trovato un compromesso: vai a lavorare nella presidenza dell’Udi». Come dire: una posizione onorevole, ma fuori dal Pci. La soluzione di una donna politicamente coraggiosa e aperta. Credo che questo l’avesse appreso anche da Togliatti, era pure una sua caratteristica.

Il rapporto con Togliatti fu per Nilde un vero e proprio banco di prova. Non fu tanto la nuova relazione di lui, all’inizio, a non essere accettata, ma la fine di quella vecchia. Rita Montagnana era una compagna, una partigiana, un membro della Costituente e molti trovarono disdicevole che Togliatti l’avesse lasciata. Tutto questo avrebbe potuto essere accettato con naturalezza: anche se in Italia non esisteva ancora il divorzio, le rotture matrimoniali erano numerose e ormai accettate nella vita quotidiana. Non fu così per Nilde.

Il partito comunista era molto attento, in quel periodo, a non dare l’impressione di ripercorrere le dinamiche del 1917 e della Rivoluzione d’ottobre, quando si predicava l’amore libero e la fine dei legami tradizionali. Si poneva il problema del rapporto con le masse cattoliche, per cui i comunisti non dovevano essere quelli «contro la famiglia», «che mangiavano i bambini» e così via: accuse che oggi ci fanno sorridere, ma che allora venivano realmente espresse. Ci fu quindi una reazione di protesta, specie nelle sezioni piemontesi: Rita Montagnana era di Torino e per anni Nilde non poté mettere piede in quella città, perché la federazione locale del Pci non la voleva ricevere.

La protesta partiva soprattutto dai vecchi compagni, per cui si trattava quasi di un tradimento della militanza passata. La spaccatura che si creò nel partito in qualche modo riguardava anche i costumi, il modo di pensare e di sentire la nostra epoca. Ma fu un passo importante perché, proprio grazie a questo scandalo, poté avviarsi nel partito la grande apertura alle donne che Togliatti desiderava molto.

Quando nel 1946 le donne conquistarono il diritto di voto, una parte del Pci era preoccupata, temendo un trionfo elettorale della Democrazia cristiana per via della maggiore frequentazione femminile della chiesa. Togliatti si oppose a questa visione, sostenendo che la partecipazione attiva delle donne contava infinitamente di più rispetto all’avere un voto in più o in meno. Nel partito iniziò a crearsi una sorta di suddivisione fra le compagne: c’erano quelle che possiamo chiamare le «cellule femminili», cioè donne che lavoravano con le donne, e le compagne che invece lavoravano in posizioni e su temi diversi, com’era il mio caso. Non era per niente facile lavorare come gli uomini e insieme a loro, venivamo considerate come qualcosa di «un po’ meno», un po’ inferiori.

Ricordo che il mio problema essenziale era fare di tutto per assomigliare a un maschio: mi sembrava che quello fosse il punto e ci sarebbe voluto il femminismo, con tanti anni di lotte, per far capire a me e alle altre che non era proprio così. Le donne sono diverse, e il femminismo – che in Italia nacque negli anni Settanta e che fu per me una scoperta tardiva – ci ha insegnato che bisogna riconoscere questa diversità. Nilde, che era di una generazione precedente alla mia e non fu mai femminista, condusse battaglie fondamentali. In questo senso era ancora più sul fronte, sia per i tempi che ha vissuto sia per la sua situazione personale: una donna che nel partito contava, ma che aveva addosso l’ombra del proprio compagno.

È triste dirlo, ma la vera normalizzazione del rapporto con Togliatti di fronte alla società e al partito avvenne con la morte di lui, quando Nilde fu in qualche modo riconosciuta come la sua compagna. La loro era, del resto, ormai una relazione ventennale. Lei poté sfilare vicino alla salma nel corteo che partì da Botteghe Oscure. Nilde era troppo riservata per parlare di questa storia ad altri, anche a qualcuno che conosceva bene come me. Ma quando, pochi anni fa, sono state pubblicate le lettere d’amore che lui le scriveva – molto belle, molto appassionate, in qualche modo sorprendenti – ho capito quanto amore ci fosse fra i due e mi sono resa conto che era una cosa che incontrandoli traspariva.

Nilde aveva la capacità di capire il cambiamento dei tempi. Nella battaglia sulla legge per il divorzio, che per lei aveva anche un aspetto personale, all’inizio il Pci aveva una posizione molto titubante: fu lei a spingere verso una decisione in favore del divorzio, combattendo perché questo fosse accompagnato da una legge di riforma del codice civile. Era un passaggio fondamentale perché le donne non avevano alcun diritto e con il divorzio rischiavano di non poter nemmeno conservare la casa in cui abitavano.

Quando Nilde è diventata presidente della Camera, io ero deputata, eletta nel Partito di unità proletaria (Pdup), dopo che ero stata radiata dal Partito comunista per la questione del «Manifesto» (e lei fu, insieme a Emanuele Macaluso, l’unica a restarmi vicina). Fu bravissima nel suo ruolo, anche perché era molto ferma, dura ma educata, tutte virtù che adesso sono completamente scomparse: oggi la Camera è un luogo dove la gente si insulta.

La generazione a cui appartengo è stata molto fortunata: ha vissuto la giovinezza nel Dopoguerra, quando c’era un’enorme fiducia nel poter cambiare il mondo e una gran voglia di farlo. Quando parlo con qualcuno che ha fatto il Sessantotto, in genere ricorda quel periodo come un momento molto felice della propria vita, e a ben vedere il motivo è che allora c’era un rapporto reale con gli altri. Insieme agli altri siamo diventati protagonisti: la politica è questo.

Il declino della politica è rinchiudersi nell’individualismo. L’assenza della politica significa più infelicità: l’infelicità dell’isolamento. Isolamento personale e del Paese. In questo senso, l’Europa fu una grande speranza di Nilde, per esempio. Ebbene, anche qui, oggi penso che purtroppo ne sarebbe delusa poiché questa Europa non ha nulla a che fare con quella del Manifesto di Ventotene, che si continua a citare senza aver letto e che lei amava tanto. Il Manifesto di Ventotene pensava a un’Europa in cui fosse forte, prioritaria la questione dell’uguaglianza sociale. Uguaglianza, pace, diritti. Quel manifesto ha avuto più influenza nella stesura della nostra Costituzione nazionale che nel formarsi della struttura dell’Europa. E Nilde, che aveva preso parte a entrambe, penso sarebbe della stessa opinione.


(*) «La reggitora. Nilde Iotti nelle parole e nelle passioni», di Peter Marcias (edito da Solferino e con prefazione di Paola Cortellesi), si compone di diverse conversazioni con personalità che la conobbero e con cui lavorò: Giorgio Frasca Polara, Livia Turco, Ione Bartoli, Marisa Rodano, Rosa Russo Iervolino, Eletta Bertani, Silvio Traversa, Cecilia Mangini, Luisa Lama, Massimo Storchi.


(il manifesto, 11 novembre 2020)

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