23 Gennaio 2020
la Repubblica

Non basta la Memoria

di Gad Lerner


L’impegno per ricordare la Shoah non ha fermato la nuova xenofobia. I testimoni hanno fallito? È la domanda del saggio di Valentina Pisanty I guardiani della Memoria


È un libro talmente scomodo – questo che la semiologa Valentina Pisanty dedica all’insuccesso dei Guardiani della memoria (Bompiani) sovrastati dal ritorno delle destre xenofobe – da lasciare interdetta l’autrice stessa. Siamo debitori a Valentina Pisanty di analisi efficacissime sul fenomeno del negazionismo della Shoah (L’irritante questione delle camere a gas, s’intitolava un saggio del 1998), e anche questo suo ultimo lavoro è meticoloso, severo, ben scritto. Però… c’è un però.

Forse non l’ho capito io, ma l’imbarazzante verità dell’assunto iniziale, quello che lei chiama “il plateale fallimento delle politiche della memoria degli ultimi vent’anni”, visto che “il razzismo e l’intolleranza sono aumentati a dismisura proprio nei paesi in cui le politiche della memoria sono state implementate con maggior vigore”, avrebbe imposto una conclusione che invece viene lasciata in sospeso. Non credo per reticenza, semmai per precauzione, Pisanty evita di indicare che cosa di diverso, in alternativa agli eccessi di ritualizzazione, avrebbe dovuto proporsi l’elaborazione collettiva di un evento catastrofico, solo parzialmente spiegabile, qual è stato lo sterminio di milioni di ebrei europei.

È significativo che in un saggio così attento alla cronaca recente – credo d’ora in poi davvero indispensabile – nel descrivere “l’avvento dell’era del testimone” e poi “la mercificazione del trauma” e infine “la saturazione della memoria”, con richiami sistematici a film, serie tv, spettacoli teatrali, dibattiti politici e cerimonie istituzionali, non si faccia cenno alla scelta del presidente Mattarella di nominare senatrice a vita Liliana Segre nel gennaio 2018. L’atto formale più solenne e di maggior risonanza compiuto in Italia per valorizzare la funzione della testimonianza e per diffondere una memoria condivisa della Shoah. Comprendo bene lo scrupolo morale di Pisanty, che mai si abbasserebbe a criticare “l’impegno civico dei sopravvissuti che hanno profuso energie alla condivisione delle proprie esperienze di deportazione”. Al contrario, è lei la prima a restare allibita di fronte alle “risate cattive”, alla “goliardia dell’Olocausto”. Basti per tutti l’intervento radiofonico da lei citato di Vittorio Feltri: “Gli ebrei rompono i coglioni da decenni con la Shoah”.

Il libro è dunque una critica sofferta, assai bene argomentata, allo “sproporzionato investimento simbolico che il culto della memoria carica sulle spalle dei testimoni” e, soprattutto, di chi si è assunto l’onere (arrogato il diritto?) di farne le veci. Cioè degli autonominati portavoce delle vittime, Guardiani per delega, peraltro mai ricevuta. Ora, io ho seguito con crescente interesse i capitoli in cui Pisanty descrive gli effetti indesiderati prodotti dalla “stanchezza del paradigma vittimario”. È tristemente vero che, assumendo il modello semantico della memoria della Shoah, sostitutiva delle grandi ideologie novecentesche, proposta come pietra angolare dell’etica liberale, europea e cosmopolita, si è ottenuto un effetto indesiderato: la moltiplicazione di memorie vittimistiche locali, spesso in contrapposizione alla tragedia ebraica, nel solco del tribalismo xenofobo. D’accordo. Concediamo pure che l’insorgenza dei nuovi razzismi, verificatasi senza che il culto della memoria riuscisse a preservarcene, dalla rivolta contro quella stessa memoria abbia tratto incoraggiamento. Lo dimostra la riesumazione di eroi nazionali antisemiti nell’est post-comunista, ma anche la denigrazione volgare di icone-vittime come Anne Frank nei nostri stadi di calcio.

Ma allora? Quali conseguenze dovremmo trarne? Ammetto di essere condizionato, nel mio giudizio, dal lavoro di raccolta delle testimonianze filmate dei partigiani viventi che insieme a Laura Gnocchi stiamo conducendo sotto l’egida dell’Anpi. Sappiamo bene che presi di per sé questi racconti, benché spesso eccezionali e commoventi, non possono sostituirsi a una rigorosa interpretazione storica. Vale anche per i testimoni della Shoah, ormai rimasti in pochi. Non penso certo che Pisanty proponga di considerarli inutili, o addirittura fuorvianti. La conseguenza da trarne è piuttosto un’altra, tutt’altro che limitativa: si tratta di riconoscere che, a suo modo, la memoria dei sopravvissuti rappresenta una forma di lotta politica e culturale. Che si lascia consapevolmente strumentalizzare a fini di giustizia e consapevolezza nell’oggi. Non è il caso di lasciarsi turbare da questo esplicito richiamo alla strumentalizzazione, perché di strumenti il nostro agire ha bisogno. Come è noto, la memoria della Shoah viene posta al servizio di due diverse cause: la legittimazione dello Stato d’Israele che, secondo alcuni discutibilissimi critici come Sergio Romano pretenderebbe addirittura di utilizzarla come “salvacondotto morale” nella sua politica di difesa. E in aggiunta, o in alternativa, la seconda “causa” che si propone la memoria della Shoah è il richiamo a stare dalla parte dei discriminati e dei profughi del mondo contemporaneo. Pur consapevoli dell’unicità delle sofferenze patite, testimoni come Liliana Segre e Piero Terracina vi si sono prestati consapevolmente.

La memoria non è mai scientifica, s’impone nella controversia e per questo suscita rigetto. È immersa nelle lacerazioni sociali e culturali che alimentano ostilità, nuove competizioni, revival di pregiudizi. Siamo grati a Valentina Pisanty per la lucidità impietosa con cui descrive questi meccanismi di contrapposizione. Ma, insieme a lei, non smetteremo di richiamarci all’insegnamento delle vittime.


Il libro. I guardiani della Memoria di Valentina Pisanty (Bompiani, pagg. 256, euro 13).


(La Repubblica, 23 gennaio 2020)

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