4 Ottobre 2018
Lettera Donna

Paola Di Nicola racconta i pregiudizi nel mondo della magistratura

di Tanina Cordaro

Chiedere a una vittima di violenza come era vestita. O a una donna picchiata perché aveva fatto arrabbiare il marito. Gli stereotipi di genere contenuti nelle sentenze nel libro La mia parola contro la sua.

Giudice penale, nominata Wo-Men Inspiring Europe 2014 dall’EIGE (European Institute for Gender Equality), Paola Di Nicola è ricordata per la sua sentenza rivoluzionaria nel processo sulla prostituzione di due minorenni della Roma bene, quando sostituì il risarcimento in denaro con libri sul pensiero delle donne. Il 4 ottobre edito da HarperCollins esce il suo nuovo libro La mia parola contro la sua. Quando il pregiudizio è più importante del giudizio, dove la giudice svela il pregiudizio che si nasconde anche nelle aule dei tribunali e nelle sentenze. «L’impressionante estensione del fenomeno della violenza contro le donne impone di chiedersi se ci sia o meno un’incapacità della magistratura e, prima ancora, delle forze di polizia nel perseguire efficacemente questi crimini», spiega l’autrice. Paola Di Nicola ha spiegato a LetteraDonna perché nessuno può dirsi sicuro di essere libero dai propri pregiudizi, neanche chi giudica.

DOMANDA: Qual è secondo lei il peggior pregiudizio giudiziario nel nostro Paese?

RISPOSTA: Che le donne che denunciano esagerano o, peggio, potrebbero mentire quando subiscono dai loro compagni violenza domestica. Una violenza spesso tradotta inspiegabilmente in termini inoffensivi come «liti familiari, incomprensioni, alterchi».

Gli stereotipi di genere contenuti nelle sentenze possono contribuire a creare un clima di sfiducia nella giustizia da parte delle donne che hanno subito violenza. In che modo avvocati e giudici possono estirparli dalle decisioni che prendono nei processi?

Hanno un ruolo determinante perché, attraverso le domande che pongono alle vittime e agli imputati dei reati di violenza maschile o di violenza sessuale, rischiano di replicare stereotipi che indirizzano la risposta, contengono un giudizio di valore o morale.

Può farci un esempio?

Se l’avvocato, il pm o il giudice chiede alla donna vittima di violenza sessuale come fosse vestita o perché avesse reagito in un modo piuttosto che in un altro, appare evidente che il pregiudizio inquinante che entra nel processo è che la vittima abbia una qualche forma di responsabilità. Non è un caso che a una vittima di rapina questa domanda non venga mai posta.

Oppure?

Chiedere a una donna massacrata di botte dal marito perché avesse assunto un certo comportamento (come uscire con le amiche o restare a lavoro fino a tardi), pur prevedendo che avrebbe potuto scatenare quella furia violenta: questo determina l’immediata convinzione, anche nella vittima oltre che nell’imputato, di essere stata la prima la vera causa della commissione del reato.

Lei si definisce una giudice. Perché in Italia la declinazione al femminile delle professioni di potere è ancora così osteggiato?

Perché la lingua è lo spazio più importante di rappresentazione ed esercizio del potere, infatti chi non è nominato non esiste, mentre chi lo è c’è e ci sarà sempre. Le donne si escludono dai luoghi di potere anche non nominandole quando vi si trovano e vi sono arrivate dopo durissime battaglie di chi le ha precedute. Dovrebbe essere chiesto a chi usa il femminile solo per parrucchiera perché non riesce ad usarlo per ingegnera o per ministra visto che la grammatica italiana ce lo imporrebbe, come scrive l’Accademia della Crusca.

Quali altre conseguenze comporta la declinazione esclusiva al maschile?

Quella di dimenticare donne straordinarie, coraggiose e competenti. Come Alma Sabatini che nel lontano 1987 riuscì a scrivere, su incarico della Presidenza del Consiglio dei Ministri dell’epoca, le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana. Raccomandazioni a cui ci dovremmo istituzionalmente attenere. E io mi chiedo: questo lavoro culturale e simbolico enorme che fine fa se le donne si nominano al maschile proprio nei luoghi di potere in cui quelle donne le hanno portate?

Nel suo libro si legge che per i mafiosi l’unica donna veramente importante è e deve essere la madre dei suoi figli. Le altre sono tutte «puttane». Questa idea però è comune anche agli uomini non mafiosi. Secondo lei chi può «educare» questi uomini a un maggiore rispetto delle donne?

Ognuno di noi, donne e uomini, nessuno escluso.

Tre sono le «fimmini ribelli» che ritrae nel suo libro (Rita Atria, Carmela Iuculano e Maria Concetta Cacciola), donne che hanno avuto la forza di sradicare gli stereotipi all’interno della cultura mafiosa. Oggi chi è la fimmina più ribelle?

Non ce n’è una sola per fortuna, sono ribelli tutte le donne che vivono libere dagli stereotipi che vengono loro affibbiati dal giorno della nascita fino a quello della loro morte. Per farlo ci vogliono consapevolezza e tanto tanto coraggio.

Qual è secondo lei il prossimo passo che dovrebbero compiere le donne del movimento #MeToo?

Dare una forma anche teorica a questa straordinaria rivoluzione non violenta e creare una nuova forma di gestione del potere, non fondata sulla sopraffazione, per donne e uomini liberi.

Il 30 novembre arriva su Netflix una delle serie tv più attese, Baby, ispirata al caso delle baby-squillo della Roma bene. Il caso, scoppiato nel 2013, aveva coinvolto anche lei in veste di giudice. Cosa spera di vedere in questa serie e cosa si augura di non trovare?

Mi auguro di non vedere replicata l’idea, a suo tempo proposta da molti giornali, fondata solo sull’ignoranza del fenomeno, che le ragazzine che si prostituiscono sono libere e smaliziate, sono arrampicatrici sociali che cercano solo denaro e che la prostituzione è una scelta glamour e inoffensiva. Mi auguro che quegli uomini adulti che comprano l’adolescenza e talvolta persino l’infanzia, per pochi o tanti soldi, vengano chiamati con il loro nome, quello che è dato loro dalla legge italiana e dalle Convenzioni internazionali: pedofili.

(www.letteradonna.it, 4 ottobre 2018

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