14 Ottobre 2021

Papirus. Una storia mai narrata prima

di Marirì Martinengo


Papirus. L’infinito in un giunco è il titolo del libro di Irene Vallejo, filologa dell’Università di Saragozza, tradotto in italiano da Monica Badana, per Bompiani (pagine 561 euro 24).


Una storia, mai narrata prima, del desiderio umano, sorto e sviluppatosi lentamente nei millenni, di trovare il modo di dire e trasmettere l’esperienza vissuta, attraverso la parola, l’oralità, e poi di fissarla tramite la scrittura, infine la sua conservazione in appositi luoghi, le biblioteche e più tardi le librerie, in Europa, Medioriente. India, Cina.

Una storia che avrei voluto conoscere negli anni del liceo e dell’università, al posto degli elenchi, aridi e tediosi, di battaglie, sconfitte, vittorie, nomi di generali, re e imperatori…

Un libro sulla memoria, su questa pulsione umana che esprime il superamento della morte, dell’oblio, inteso anticamente come omaggio alle Muse, figlie della Memoria.

Il non omnis moriar, che ha fatto nascere, fra gli altri intenti, la nostra Libreria e ha spinto me e molte altre, a scrivere.

L’autrice, filologa ricercatrice dell’Università di Saragozza, tesse il suo racconto in bilico fra ricostruzione scrupolosa delle origini dell’oralità, della scrittura e l’avventuroso e il romanzesco; indugia nella narrazione anche a riportare aneddoti attribuiti a personaggi famosi e a ricordi autobiografici: da questo sapiente, variegato amalgama il lungo racconto risulta vivace e avvincente.

Nel libro si narra come in origine quanto si riteneva memorabile fosse trasmesso a voce, da cantori, gli aedi, e che solo più tardi trovò posto nella scrittura.

Il papiro, un giunco che cresce sulle rive del Nilo rese agevole la scrittura, affidata in precedenza a tavolette di pietra o di terracotta; i caratteri erano impressi con uno stilo, munito di spatola, per le correzioni; il papiro rese possibile la stesura di lunghi testi, la loro conservazione in rotoli e infine la sistemazione in ripiani di legno. In Egitto fiorì una vera e propria industria per la coltivazione, la raccolta, l’esportazione del papiro, in tutto il mondo allora conosciuto. La pianta del papiro, sapientemente conciata dagli Egizi, garantì la secolare durata della biblioteca di Alessandria, delle sue emule, distribuite in Occidente e in Oriente e, soprattutto, servì da modello alle biblioteche future fino ai nostri giorni.

Il libro comunque per tutta l’antichità, sia in tavolette o in papiro o in pergamena, fino all’invenzione della stampa, avvenuta in Europa, nel XV secolo, restò un prodotto artigianale: le tavolette potevano essere legate fra di loro da una cordicella inserita in un foro, i testi su papiro o su pergamena, ricopiati a mano, erano avvolti in rotoli; va detto però che la lettura, o meglio, la decifrazione, ne era comunque resa ardua dal fatto che le parole si susseguivano senza interruzione fra di loro e la punteggiatura rimase a lungo sconosciuta.

Si dà rilievo all’importantissimo passaggio dalle scritture basate su segni convenzionali e ideogrammi all’alfabeto, strumento conciso, pratico, agile, universalizzabile, creato dai mercanti fenici, adottato e adattato da Greci e Romani.

Grande parte del volume è dedicata all’espansione dell’Ellenismo, sulle sue ricadute positive per la diffusione della cultura e della lingua greca e soprattutto della fondazione della biblioteca di Alessandria, simbolo della fusione fra Oriente e Occidente, custode per secoli, del sapere di tutti i territori limitrofi. A proposito dell’ecclettismo della fondazione, l’autrice interpreta in modo originale il mito di Europa, che simboleggia il rapimento della cultura orientale perpetrato dall’Occidente.

All’interno della biblioteca, personale specializzato si occupava delle traduzioni dei testi stranieri; tutti i documenti, non solo venivano conservati in rotoli di papiro, ma anche sistemati in ambienti e scaffali a misura e catalogati, per facilitarne il reperimento. Trovarono posto al suo interno scuole di alto livello, in cui confluivano i sapienti dell’epoca, sui quali Irena Vallejo indugia per menzionarne il pensiero, le opere, l’influenza.

La biblioteca era sostenuta e finanziata dai Tolomei, sovrani d’Egitto, eredi di Alessandro.

L’autrice scredita il resoconto di Plutarco a proposito dell’incendio che avrebbe distrutto la famosa istituzione, nel primo secolo a. C.; sostiene invece che in quel tempo ad andare a fuoco furono i rotoli di papiro, ammassati sulle imbarcazioni, pronti per l’esportazione.

Comunque, la biblioteca, un tempo faro di luce, subì un lento declino, alcuni incendi, saccheggi e devastazioni, ma perì soprattutto perché, con la sempre maggiore potenza di Roma, il centro del mondo era diventata quella città.

In riferimento ancora ad Alessandria, l’autrice riferisce le lotte feroci fra pagani e cristiani nel secondo e nel terzo secolo d.C. e l’ultimo guizzo fulgido della sua splendida cultura: Ipazia.

Attenzione per le donne

Ad Atene, come si sa, le donne delle famiglie agiate vivevano segregate nei ginecei, dedite alla tessitura e all’allevamento della prole, ma l’autrice non manca di riferire che il primo nome in assoluto segnalato in poesia è quello di una donna, Eneduana, di famiglia nobile, vissuta nel 1500 a.C., seguita poi da Cleobulina.

A proposito della segregazione delle Ateniesi, l’autrice avanza un’ipotesi creativa: nell’Atene del V secolo potrebbe essersi verificato un movimento di donne insofferenti della loro situazione, inclini all’insubordinazione; sarebbe palese nelle parole di Medea, protagonista della tragedia omonima di Eschilo e delle donne del coro: parole forti di denuncia di uno stato non più tollerabile di esclusione; sempre secondo la convincente supposizione dell’autrice, anima del movimento sarebbe stata Aspasia. A sostegno di ciò Irene Vallejo afferma che il teatro in Grecia era portavoce degli umori dell’agorà. Accanto ad Aspasia avrebbero figurato Antigone, Bassamora, Lisistrata e altre.

La raffinata civiltà ateniese, di cui Vallejo è sconfinata ammiratrice, creò, ad opera del drammaturgo Eschilo, di cui ricorda anche I Persiani, e dello storico Erodoto, la capacità di “mettersi nei panni di altre e altri”. In riferimento alle donne, riferisce le curiose affermazioni contradditorie di Platone, secondo cui gli uomini indegni sarebbero rinati donne e che non esistono, nel governo della Repubblica differenti attitudini o disposizioni fra donne e uomini.

Due donne frequentarono l’Accademia del filosofo.

La scaltra studiosa sorvola sulla tanto decantata democrazia ateniese, che in realtà considerava cittadini a pieno titolo e candidati al governo della res publica solo i maschi adulti con esclusione delle donne, degli stranieri, degli schiavi.

Sia nelle zone di influenza greca come poi in quelle di influenza romana erano tenuta in grande considerazione l’epica e la tragedia, mentre il riso e la commedia non godevano di stima (dei numerosi comici si conservò solo Aristofane); a questo punto Irene Vallejo cita Il nome della rosa, l’enigma della metà perduta del libro di Aristotele, quella dedicata al riso, nella sinistra biblioteca dei monaci visitata da Guglielmo di Baskerville. L’abbandonarsi al riso era considerato disdicevole e pericoloso per il potere sia civile sia religioso.

Per quel che concerne lo sguardo e i riferimenti alla storia, grande risalto viene dato ad Eschilo che ne I Persiani, nemici giurati della Grecia, si astiene dal giudicarli negativamente e si mette nei loro panni e allo storico Erodoto che si fa raccontare la storia della propria patria dagli altri.

L’entusiasmo dell’autrice scema visibilmente quando, nella seconda parte del libro, passa a trattare della civiltà e cultura romane, cui però riconosce l’ammirazione per il modello greco, l’invenzione del libro nel formato agile e maneggevole che usiamo ancora adesso, nella fondazione, a partire dal I secolo a. C, di biblioteche pubbliche, numerosissime, alcune delle quali sistemate perfino presso le terme per facilitarne la frequentazione anche al grande pubblico; riconosce la maggiore libertà di cui godevano le romane nell’accesso alla lettura, alla cultura in genere, la loro presenza ai banchetti, agli spettacoli, alle manifestazioni religiose e sportivi.

La fitta rete stradale romana collegava fra loro e con i centri maggiori città e cittadine, tutte dotate di vie ad angolo retto, acquedotti, fognature, teatri, templi, fori, scuole fino ai più alti livelli, biblioteche, le une e le altre frequentate da donne e uomini.

Ce ne è rimasta a testimonianza, la biblioteca di un patrizio, Pisone, situata in una lussuosa villa ad Ercolano, salvata, per modo di dire, dalla lava della famosa eruzione del 79 d. C, e riportata alla luce in questi ultimi tempi. La raccolta contava centinaia di volumi, alcuni dei quali di pregio, decorati con miniature, lettere a caratteri dorati.

Alcuni imperatori, a cominciare da Augusto, avviarono percorsi di censura su libri ritenuti insidiosi per la stabilità politica e sociale, per la morale consolidata: Il poeta Ovidio fu esiliato a vita, a causa dei suoi versi e forse di un malinteso o equivoco: Ovidio stesso ascrisse la propria condanna a carmen et error. Va detto che nell’Ars amandi, oltre alla gioiosa esaltazione dell’amore in tutte le sue forme, il poeta cantava la pienezza dell’amore raggiunta quando anche la donna prova piacere.

I primi cristiani, per ben altri motivi, per sfuggire alla censura, dovettero tenere a lungo nascosti i loro preziosi testi sacri.

Numerosissimi i nomi di donne romane dedite alla scrittura, filtrati attraverso gli scritti altrui, ma delle quali l’opera è andata perduta, a parte qualche frammento giuntoci a mezzo citazioni; ci è pervenuta viceversa una poesia d’amore e altri frammenti di Sulpicia, che si sono salvati perché integrata in un’antologia di poeti appartenenti al Circolo di Tibullo, frequentato probabilmente anche da lei. Sulpicia, di nobile e ricca famiglia, scrisse appassionati e audaci versi d’amore per un certo Cirinto.

Sono sopravvissuti al tempo, all’incuria, alle devastazioni alcuni scritti di Agrippina, la madre di Nerone, e di Cornelia, la madre di Caio e Tiberio Gracco, le lettere di Tullia a suo padre Cicerone.

Roma riuscì a omogeneizzare, grazie alla lingua e alla cultura diffuse dai libri, l’Europa, l’Africa settentrionale, parte dell’Asia, fino all’India. Anche nei luoghi più periferici e lontani dai centri maggiori vi erano persone colte e ricche che incaricavano i propri schiavi istruiti di copiare i libri che, sulle strade di Roma, mettevano in circolazione un sapere tratto da un’unica tradizione, globalizzando – per usare un termine attuale – il mondo allora conosciuto. L’imperatore Caracalla nel III secolo d.C. si spinse al punto di promulgare una legge che estendeva la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero.

Successivamente, con il sopravvenire di popolazioni altre nei territori dell’impero, si spezzò e frantumò quella cultura e quella civiltà e dobbiamo gratitudine a quelle donne e a quegli uomini che, con coraggio, grandi sforzi e indomita volontà, riuscirono a conservarci quanto ancora abbiamo.

Il libro di Irena Vallejo termina con il racconto delle forti e determinate donne che, a dorso di mule, con pesanti carichi sulle spalle, percorrono ogni giorni gli impervi sentieri dei monti Appalachi, per portare dei libri negli sperduti villaggi delle dirupate montagne; questo episodio ci serve per non dimenticare che un’infinità di donne e uomini, nel corso della storia, anonime e anonimi, hanno dedicato passione e lavoro al libro – fabbricazione, scrittura, copiatura, conservazione, divulgazione – strumento ineguagliabile di cultura, civiltà, svago.


(www.libreriadelledonne.it, 14 ottobre 2021)

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