7 Settembre 2016
Repubblica.it

Patrizia Cavalli: “Io, la malattia e le mie pene d’amor perdute”

L’autrice racconta il suo rapporto con la poesia, il dolore e le nuove

traduzioni di Shakespeare che presenterà oggi al Festival di Mantova

di LEONETTA BENTIVOGLIO

 

Con “Shakespeare in scena”, edito da Nottetempo, escono riunite in un volume le traduzioni di quattro play a firma di Patrizia Cavalli, che lo presenterà stasera al Festivaletteratura di Mantova e il 16 a Pordenonelegge. Sono “La tempesta”, “Sogno di una notte d’estate”, “Otello” e “La dodicesima notte”. Mentre leggiamo il libro, Shakespeare ci cammina accanto. È un amico a noi contemporaneo che racconta il potere, l’eros, l’amicizia, la morte, la famiglia

la guerra, i tradimenti. Lavorando sulla lingua, la Cavalli costruisce un italiano che comunica umanità profonda e pienezza di esperienze. Comunicare in questo modo significa praticamente tutto. Patrizia lo sa. Di volta in volta ha fatto queste traduzioni per committenze teatrali. Le ha viste interpretate da artisti come Carlo Cecchi. Le ha sentite applaudire dal pubblico con entusiasmo. “Traducendo Shakespeare, a parte alcuni tagli decisi dal regista, in Otello per esempio”, premette la poetessa accomodata nella sua casa di Roma, vicina a Campo de’ Fiori, “sono rimasta più che fedele al testo, ma cercando di cogliere davvero la lingua shakespeariana nelle sue sonorità e sfumature. Shakespeare è sempre pieno di riferimenti e sottotesti che vanno compresi per poi trovare una lingua ricca e trasparente”.

Semplice, ma non semplificata.

“Proprio così. Shakespeare vive nel teatro e il pubblico anche popolare che lo andava a sentire capiva tutto. Però ha una lingua che non è di adesso, e chi traduce tende a imitare quella antica, a farne qualcosa di macchinoso e improbabile. Va riportato a una lingua viva. Per questo le traduzioni invecchiano facilmente. In realtà tradurre, soprattutto Shakespeare, è una fatica spaventosa: bisogna attraversare l’inferno dell’artificio per conquistare l’apparenza della naturalezza. C’è anche da considerare il suono, che è sempre fondamentale nel suo rapporto col significato, visto che Shakespeare scrive in versi. Conta che si senta il ritmo nell’andamento della voce dell’attore. Un muoversi negli accenti che renda il verso diretto e necessario. Anche chi traduce ha bisogno di questa ginnastica quasi fisica per trovare i toni vocali dei personaggi, tanto che traducendo mi succedeva di spostarmi nelle stanze, magari trovando una soluzione quando raggiungevo la cucina. Otello ha la magniloquenza tipica degli epilettici, che contiene l’anticipazione della catastrofe; Iago ha la bassezza approssimativa di certi romaneschi che fanno intendere di saperla lunga”.

Nel suo appartamento che va su e giù nei livelli, tra scale e pavimenti ondosi, Patrizia parla di Shakespeare con un abbandono privo di saccenza. Ha il capo fasciato da un cappuccio azzurro che cela gli effetti della chemioterapia. A un tratto per il caldo se lo toglie, scoprendo una bella testa perfettamente tonda. Di giorni ariosi o affannati, di

piccole meraviglie dell’amore, di fisicità impudenti, di dettagli comuni, si nutrono le poesie della Cavalli, autrice di varie raccolte pubblicate da Einaudi, da Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974) fino a Datura (2013). Forse è stata la sua semplicità senz’artificio, la sua nobiltà nell’ordinarietà, il suo senso centrale del corpo, a farle cogliere

il respiro vitalissimo di Shakespeare.

Di corpo è piena la sua poesia, Patrizia Cavalli. E qualche tempo fa il suo corpo si è

ammalato.

“Ogni sua particella sono io. Ogni cellula si rivela, si manifesta. Il mio fisico non è mai stato separato dalla mente. L’ho ascoltato costantemente. Per questo sono stata sempre ipocondriaca, sentendo in me qualcosa di segreto e di estremo. Poi, quando si è manifestato il male vero, l’ipocondria è passata: l’immaginazione non aveva più un luogo in cui andare. Il terrore legato all’ipocondria veniva dal vuoto corporale. Il cancro ha riempito il panico. E mentre gli amici mi dicevano: hai una gran forza d’animo, la verità è che scoprendo la malattia io non ero più depressa”.

Ha sofferto di depressione?

“Fin da giovanissima, al liceo. Poi si è ripresentata in periodi diversi. Mi abbandonavo a me stessa e fissavo il vuoto. Nella poesia l’ho descritta. Uno stato di separazione. Passaggi visionari, quasi schizoidi. Ciò che è solo se stesso e non si muove è terribile, che sia una parete o un soffitto. Uno psichiatra sostiene che una mia poesia è la migliore definizione della depressione che abbia mai sentito e l’ha portata a un convegno: “Persino il sonno adesso mi dispiace / perché il sonno produce il mio risveglio””.

Non ha mai tentato una psicoanalisi?

“Una volta ci ho provato, ma ho lasciato perdere abbastanza presto. La simpatica poeta milanese Vivian Lamarque era così dispiaciuta per la mia depressione che mi spinse a provare. Le ho detto: vado, però trovami una psicoanalista bella, antipatica, elegantissima e sprezzante. Voglio essere dominata. Invece mi manda da una signora buonissima.

Quando entro nel suo studio si aggiusta il golfetto. Mi chiede: perché viene da me? Rispondo: perché lei è obbligata ad ascoltarmi per 45 minuti senza ribellarsi. I miei amici non ne possono più”. Era un groviglio di amori infelici? “Gli amori infelici sono sempre anche felici, altrimenti non potrebbero essere infelici. C’è stato un lunghissimo amore che

mi ha fatto scrivere molto. Poi la musa è scomparsa”.

Pensa spesso alla morte?

“Se le circostanze sono concrete ti attacchi al dettaglio senza pensare più in prospettiva. Rimuovi. Eppure rimuovere non è nella mia natura: sono stata sempre pronta ad affrontare pensieri orrendi. Credo che sia una forma di arroganza. Ho avuto il tempo d’immaginare la morte. Il massimo del terrore è l’idea di finire in una zona dove non ho controllo”.

Le sue poesie trasmettono un’infinita libertà. Come nascono?

“Quelle di pochi versi arrivano da sole, bussano alla porta e io apro. Cammino, mi parlo nella mente, scrivo un paio di versi e correggo. Nelle poesie lunghe, come La patria, c’è un intero sistema di pensiero. Nelle brevi la concentrazione è immediata”.

Quando una poesia è riuscita?

“Quando si muove. Deve attraversare un territorio. Può anche sembrare bella, ma se resta ferma nel suo tempo e nella sua idea, senza un prima e un dopo, è mezza morta. Che siano tre versi o 300, bisogna che accada qualcosa. Dev’esserci una sorpresa del pensiero. Un eros nella parola”.

Lei dà sostanza poetica a parole comuni, quotidiane.

“Non ci sono parole belle o brutte. Tutte sono stupende. Purché siano reali e pertinenti. Spesso le parole sono usate in modo orribile, e alcune vengono logorate dall’uso. Perciò bisogna aspettare che ritrovino un’innocenza”.

 

(Repubblica.it, 7/09/2016)

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