3 Giugno 2021
Wired

Perché leggere Fran Lebowitz, l’ultima anticonformista

di Davide Piacenza


Se sentite l’urgenza cocente di scrivere o dipingere, limitatevi semplicemente a mangiare qualcosa di dolce: vedrete che la sensazione svanirà. La storia della vostra vita non è materiale per un buon libro. Non ci provate nemmeno”. Quando scriveva queste parole a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta forse non immaginava una populistizzazione coatta della produzione culturale ancora di là da venire, ma Fran Lebowitz, elitista impenitente, aveva già fatto della schiettezza il suo tratto distintivo: era una “socialite” disincantata e beffarda, lavorava per la rivista Interview di Andy Warhol (con cui non andava d’accordo, ma “è andata meglio dopo la sua morte”, tiene a precisare) e si occupava di tutto ciò che i suoi colleghi dell’intellighenzia impegnata aborrivano, dal risparmio sulle spese di proprietà sugli immobili all’insondabile legame fra bel tempo e quartieri ricchi. Oggi i suoi scritti umoristici raccolti in Metropolitan Life e Social Studies (titoli datati rispettivamente 1978 e 1981, e gli ultimi veri libri che ha scritto: evidentemente sono stati quarant’anni pieni di dolci) escono per la prima volta in italiano, tradotti nel volume La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire (Bompiani).

Di Fran, settantenne che parla di sé dicendo “of course I’m still a very young woman” (ovviamete sono ancora una giovane donna), ci eravamo innamorati anche a queste latitudini grazie al documentario dedicatole dal suo amico Martin Scorsese, Pretend It’s A City, una piccola gemma di idiosincrasia e ironia affilata che cela appena un rifiuto garbato della contemporaneità. Fran Lebowitz, ebrea newyorkese, lesbica, mai laureatasi e sempre in bolletta, non vuole saperne delle battaglie identitarie che contraddistinguono quest’epoca: a un altro suo amico, l’editorialista Frank Rich ha detto “non sono contraria ai diritti gay, ovviamente: solo credo non siano il problema centrale. Voglio dire, guarda all’energia che abbiamo messo nei matrimoni omosessuali. Se nella vita reale ci fossero tante persone gay quante ce ne sono in televisione, staremmo discutendo di matrimonio eterosessuale”.

La prima indiscussa qualità di Lebowitz, in ogni caso, è la sentenziosità: in una riga o una battuta, Fran riesce a condensare mondi, spesso con più efficacia intellettuale dei colleghi impegnati di cui poco sopra. Parlando dei suoi viaggi nell’Italia di quarant’anni fa, l’umorista spiega che a Milano “ci sono due categorie di persone: quelli che lavorano per i vari Vogue e gli altri”; “le persone che incontro sono quasi tutte comuniste, in particolare i ricchi” e ancora “a Milano lavorano tutti, e se piove danno la colpa a Roma”. Anche la capitale è fotografata con una precisione che ha dello scientifico, nella pagina seguente: “La gente passa la maggior parte del tempo a pranzare. Roma è senza dubbio la capitale mondiale del pranzo”.

In tempi di cancellazioni, lo spirito anticonformista e antimoralistico di Fran Lebowitz è merce rara: quando racconta al suo sodale Scorsese (che ha difeso dalle accuse di sottorappresentazione femminile nei suoi film, spiegando che l’importante è quante donne registe ci sono, non quante donne nei film di un singolo regista) di non credere che “ci siano persone come me nelle generazioni più giovani. Perché non gli sarebbe permesso essere come me. Non che la mia vita sia stata tutta rose e fiori, non che la gente adori come sono fatta, ma o sono assurdamente critiche, in modo abbastanza folle – tipo «detesto come tieni i capelli, devi morire» – o incredibilmente esagerate nelle lodi”, centra un punto importante. Rifiuta orgogliosamente di arrendersi a smartphone e social network (e quando nei salotti che frequenta glieli si mostra come per educarla, si inalbera: “Non è che non ho queste cose perché non le conosco: non ce le ho perché so esattamente cosa sono”), ama i bambini perché sono “i migliori avversari che si possano desiderare a Scarabeo” e non tollera la mania per le piante da appartamento ed eccentricità altoborghesi come il succo di lime sulle patate gratinate.

Da più di cinquant’anni la accusano di connivenza con le élite, un altro penchant che la vede seduta dalla parte con meno posti occupati della storia, ma lei metteva in chiaro le cose già al compagno di pranzi e cene nei ristoranti di Manhattan, Frank Rich: “Quando la gente dice che odia le élite, vorrei che intendessero i ricchi. Ma non è così: odiano le persone intelligenti. Il paese adora la gente ricca. Vorrei vedere un po’ di lotta di classe, l’unico tipo di guerra detestato dai repubblicani”. Anche gli intellettuali meno impegnati, nel loro piccolo, s’incazzano.


(Wired.it, 3 giugno 2021)

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