16 Settembre 2015
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Pratiche di corpi in rivolta

Il potere è rifiutato, in quanto slegato dai corpi, dai bisogni, dalle esperienze e luogo di alienazione delle soggettività e, con esso, viene rifiutata l’idea di un’uguaglianza tra i sessi

di Federica Castelli

Le lotte e le esperienze portate avanti dalle donne del movimento femminista sperimentano pienamente le caratteristiche del gesto di rivolta: fuori dal dispositivo simbolico della Sovranità, della cittadinanza e dell’istituzione della rappresentanza, il femminismo offre l’occasione per poter pensare quanto finora elaborato solo a livello teorico nel suo intreccio con l’esperienza. Va anche detto che i tumulti che popolano gli scenari politici attuali sperimentano pratiche e forme di lotta a cui il taglio femminista ha dato spazio, elementi di rottura e innovazione a cui le donne hanno dato corpo e voce: il partire da sé, dove il soggetto è inteso come corpo, esperienza, vissuto, relazioni, e lo spostamento rispetto al piano della presa del potere a vantaggio della costruzione di orizzonti simbolici e di pratiche alternativi.

 

Pubblichiamo un estratto da Corpi in rivolta (Mimesis, 2015)

 

Negli anni Settanta, numerose pratiche e riflessioni di donne hanno portato ad esperienze e a contesti in cui la contraddizione crescente tra rivolta e spirito di rivoluzione, ingabbiato nelle maglie della logica sovrana, del potere, e dei suoi corollari violenti, apodittici e ideologici, è divenuta oggetto di discussione e spostamento, inaugurando una vera e propria rivolta sessuata al cuore del concetto di rivoluzione. Gli scritti di Rivolta Femminile e le riflessioni di Carla Lonzi, così come tutta l’esperienza del femminismo in Italia, sono elementi essenziali ai fini di una esaustiva comprensione della rivolta nel suo esser altro dalla rivoluzione e dalle logiche del potere sovrano. Le pratiche di rivolta sessuata portate avanti dalle donne durante il femminismo degli anni ’70 portano alla rottura con un’intera tradizione simbolica di potere, sia fuoriuscendo dalla logica dell’Uno a garanzia del corpo politico, aprendo alla differenza e alla molteplicità, sia sottraendosi al procedimento dialettico che incastra il processo rivoluzionario nelle pesanti contraddizioni che abbiamo visto.

Il fatto che nella tradizione occidentale il femminile sia stato l’escluso del discorso, normato e riammesso nello pseudo-concetto di neutralità universale, offre l’occasione di uno spostamento: da sempre esclusa dalla narrazione del patto sociale, l’esperienza politica delle donne diviene il luogo per poter pensare la rivolta fuoriuscendo, attraverso il rifiuto delle pratiche politiche tradizionali e neutralizzanti, dalle contraddizioni che inficiano l’atto rivoluzionario. L’irruzione della donna scompagina il discorso del potere e sposta i termini del conflitto altrove, in altre pratiche, in altre narrazioni, che nascono dal sé e dalla politica delle relazioni, dell’agire di concerto e dello spazio politico condiviso, anche quando è conflittuale. Il femminismo, soprattutto quello italiano, ha rimesso in discussione i termini del simbolico politico tradizionale nel suo porsi rivoluzionario e violento, in un gesto di schivata che ricorda quello di Pentesilea, regina delle Amazzoni, figlia di Ares, che spostandosi rispetto al piano della violenza maschile e della mera riproposizione di un modello di scontro politico frontale, non obbedisce agli ordini di Priamo e ripensa la forza e il conflitto a partire dal proprio essere donna, inaugurando così un nuovo modo di porre lo scontro. Fuoriuscendo dalla logica dello scontro binario, che sembra contraddistinguere il Politico fin dalle sue origini, le donne, come Pentesilea, si sottraggono all’opposizione frontale con il potere; aprono nuovi spazi e nuove pratiche percorrendo i bordi del discorso sovrano; si muovono sui confini, in posizione decentrata, lontane dal rischio di lasciarsi assorbire dalle istituzioni costituite. Come Pentesilea, le donne del femminismo hanno dislocato i termini del conflitto, rompendo tutti i codici dello scontro frontale tradizionale che caratterizza la logica dicotomica della rivoluzione come scontro fra poteri. Fuori dalla logica del potere, della sovranità statuale, il femminismo intacca anche le regole della lotta contro il potere già costituito.

 

Il posizionamento sessuato apre alle donne la possibilità di fuoriuscire dai canali tradizionali della presa di parola in politica, che prevede per le donne l’emancipazione come declinazione di un canone neutro (maschile), che sommerge il differenziale di esperienza, sapere e pensiero che la differenza sessuale porta sulla scena. Il potere è rifiutato, in quanto slegato dai corpi, dai bisogni, dalle esperienze e luogo di alienazione delle soggettività e, con esso, viene rifiutata l’idea di un’uguaglianza tra i sessi. Il Politico, si è visto, esclude e reintegra il femminile normandolo secondo dei canoni già dati, corrispondenti ad una autorappresentazione del corpo politico come spazio neutro e omogeneo, razionale e non conflittuale. Tale narrazione chiude il femminile nel già detto, nel già previsto della politica, ed è funzionale alle gerarchie e alle tassonomie sociali su cui la società si struttura. In un contesto simile la presa di parola delle donne, lungi dall’essere momento di maggiore libertà, non fa che rafforzare la realtà preesistente. L’ideologia dell’uguaglianza è rifiutata e smascherata nei suoi esiti omologanti, violenti, politicamente improduttivi. Fare vuoto, operare tagli, discontinuità e reiterate rotture: ciò che distingue le donne degli anni Settanta dal femminismo dell’emancipazione e dei diritti è proprio il togliersi da una posizione già attribuita, sottraendosi a valori e misure eteronomi partendo da sé, dal proprio corpo, dalla propria esperienza, per elaborare una pratica politica radicata nelle vite e che tiene conto della differenza sessuale.

Una politica che è radicalmente altro rispetto al potere che invece, crescendo ed espandendosi, tende a sradicarsi dai corpi, passando sopra le singolarità e le differenze, imponendo il proprio registro narrativo e la sua nuda logica. Contro tale unificazione, il femminismo pensa la pluralità dei poteri e delle pratiche del partire da sé. Il femminismo opera questi spostamenti giocando sulla propria asimmetria rispetto al Politico. Non vi è scontro con il potere, dal momento che non vi è confronto. Il femminismo non si pone come alternativa politica antagonista al sistema già dato, ma come ordine altro rispetto al simbolico politico tradizionale. Le logiche della Sovranità vengono messe in discussione alla radice e con esse l’idea che personale e politico, pubblico e privato siano distinzioni di riferimento; esse sono invece distinzioni eteronome e imposte dalla forza di legge, che producono legge a loro volta.

 

La differenza sessuale è un posizionamento qualitativo non rappresentabile attraverso i modi classici della democrazia

 

Per le donne del movimento femminista dire che il personale è politico non significa ridurre tutto al discorso politico, né che tutto è politica; significa, però, che ogni aspetto dell’esistenza può diventarlo. La divisione classica tra pubblico e privato non aderisce all’effettiva esperienza che una donna fa della realtà, in cui cultura, relazioni, lavoro, tutto è intriso di politicità ed è stato politicamente normato. Il corpo sessuato viene riportato nella polis, rendendo l’esperienza del femminismo inedita rispetto a tutte le rivoluzioni precedenti. Legato alle soggettività incarnate, il femminismo porta sulla scena il senso politico del corpo, sia come luogo di potere – poiché da sempre il corpo femminile è stato il luogo di applicazione di tassonomie e dispositivi di potere – sia come punto di leva per scardinare le logiche di potere astratte, ideologiche e fallologocentriche nelle loro accezioni più pervasive.

Cade l’idea che la politica si riduca esclusivamente a ciò che avviene all’interno e per mezzo delle istituzioni e viene meno l’idea della necessità di una rappresentanza femminile: le donne, infatti, non sono un gruppo sociale omogeneo e compatto come altre realtà socialmente oppresse; le donne hanno posizionamenti differenti, progetti individuali e collettivi diversi, laddove non dichiaratamente in contrasto. La differenza sessuale è un posizionamento qualitativo non rappresentabile attraverso i modi classici della democrazia, quantitativi, numerici. La politica delle donne è una politica che si costruisce nelle pratiche di ogni donna assieme alle altre donne, giorno per giorno; non può darsi una volta per tutte. Per questo, il femminismo non può cristallizzarsi in idee, punti, ideologie già date.

 

Rifiuto di chiudersi in un organismo e di sottomettersi ad un linguaggio unico; impianto antiautoritario, libertario, incentrato sul corpo, sull’esperienza di ogni singola: chiudersi in forme organizzative tradizionali è impossibile. Anziché formalizzarsi in un’organizzazione data, con richieste e obiettivi specifici, la politica sessuata si basa su pratiche radicate nella concretezza dei soggetti. La rivolta femminista è dunque un movimento che si pone sul piano del simbolico e delle pratiche di vita che a questo si legano.

Il continuo radicamento a sé e al pensiero dell’esperienza rende il movimento femminista più radicale rispetto al movimento antiautoritario del 1968, cui pure si avvicina per alcuni punti, come la lotta per la partecipazione e la democrazia diretta e il rifiuto della delega politica. Alcuni dei primi gruppi femministi nascono in Italia proprio nel contesto delle occupazioni e del movimento studentesco che però, per quanto antiautoritario e in lotta contro lo sfruttamento e l’alienazione, misconosce la forma prima e più antica di ogni rapporto di potere, quella dell’uomo sulla donna, e non tiene in considerazione l’alienazione profonda che il dispositivo di identificazione di donna, corporeità, funzione riproduttiva e oíkos – di contro all’associazione uomo-razionalità-libertà-politica – mette in atto. La rottura portata avanti dal femminismo in Italia durante gli anni Settanta, non solo pone il rifiuto del potere costituito e delle istituzioni governative tradizionali ma, scagliandosi contro l’intero simbolico politico neutralizzante e patriarcale, entra in collisione con gli stessi gruppi politici rivoluzionari.

Nell’iniziale slancio antiautoritario del movimento studentesco le donne sanno intuire gli esiti più burocraticizzati e alienanti della settarizzazione che aspetta il movimento: la nascita dei partiti marxisti-leninisti e la riproduzione all’interno dell’organizzazione degli stessi meccanismi di dominio e passività, così come la ricerca di un leader, che riconducono ai vecchi schemi e ai vecchi giochi di potere. Ponendosi come soggetti radicati, incarnati e legati alle pratiche di relazione politica, le donne entrano in netto ed immediato contrasto con la logica dell’organizzazione partitica e movimentista tradizionale e si pongono in rotta di collisione con l’idea stessa di rivoluzione; in virtù delle loro pratiche e del loro posizionamento, esprimono una forte critica al “rivoluzionario” a partire dal suo stesso bagaglio teorico e ideologico.

 

La logica rivoluzionaria, incentrata sulla dialettica servo-padrone, è per le donne muta ed alienante Le donne rifiutano la rivoluzione ipotetica del marxismo, che le ha vendute e sacrificate al domani, riconoscendo come ogni rivoluzione popolare, in cui la donna combatte a fianco degli uomini, si concluda infine con una messa da parte delle donne e un ripristino camuffato delle vecchie gerarchie e tassonomie sociali. «Permetteremo quello che di continuo si ripete al termine di ogni rivoluzione popolare quando la donna, che ha combattuto insieme con gli altri, si trova messa da parte con tutti i suoi problemi?». Il movimento femminista denuncia le contraddizioni che l’azione rivoluzionaria porta con sé. La lotta di classe esclude la donna, come molte altre teorie rivoluzionarie che, mirando alla presa di potere, non possono agire sul piano della liberazione delle donne.

L’ombra in cui le donne vengono relegate dalla rivoluzione non segna semplicemente un limite che rende mute e inefficaci le politiche dei partiti e i processi rivoluzionari tradizionali, ma riflette una più generale inadeguatezza della politica istituzionale nei confronti della complessità dell’esperienza. Il femminismo mantiene la radicalità dell’asimmetria tra i sessi, rifiutando il neutro e la sintesi dialettica; mantiene la centralità dell’esperienza e il partire da sé contro la stessa militanza, che in linea con il politico tradizionale, sposta il proprio oggetto fuori di sé, su un soggetto a venire, un’idea da inverare. Viene messa in discussione la tensione progettuale del rivoluzionario che, spostando in un lontano futuro gli esiti del proprio agire, finisce per schiacciare i corpi e le esistenze che ne abitano il presente. Non vi è un fine dato verso cui orientarsi, né un un futuro in virtù del quale sacrificarsi: vi sono i corpi, di ognuna, di ognuno, e le relazioni politiche che costruiscono alleanze, conflitti, orizzonte politico.

 

La politica è creare un senso nuovo della realtà

 

Occorre premunirsi contro le derive ideologiche, rifiutando il cristallizzarsi di pratiche, le personalità di riferimento, così come l’idea di una identità collettiva. Le donne del femminismo rifiutano la solidarietà ideologica per preservare come distinta ogni singola coscienza e si sottraggono al ricatto implicito alla pretesa di unità, che mitizza anziché demitizzare. Si cerca l’autenticità del gesto di rivolta, del taglio e della cesura, senza sacrificio all’organizzazione e all’Idea. Così, il femminismo intraprende un percorso di liberazione senza modalità fisse che viene definito dalle stesse donne come non scontato, non uniforme, non edificante, non rivoluzionario.

Quello che viene messo in campo nel “tra donne” del femminismo, è qualcosa che va oltre e non rappresenta la versione “di genere” della dialettica rivoluzionaria, piuttosto il suo scompaginamento. Rifiutando la scissione tra mezzi e fini, il femminismo si centra sulle pratiche e sulle relazioni politiche, allontanandosi in modo netto dalle contraddizioni che la dialettica rivoluzionaria incontra sul proprio cammino.

La politica è creare un senso nuovo della realtà, creazione di simbolico: lontano dai modi tradizionali della mobilitazione generale e dell’assemblea, il femminismo pone al centro il soggetto incarnato, colto nel suo essere innanzi tutto sessuato, complicando così col desiderio la pretesa di razionalità che il Politico da sempre si attribuisce. In questo spostamento radicale, uno dei momenti fondamentali è stato quello della pratica separatista: sottraendosi all’idea di un rapporto dialettico tra i sessi, rifiutata rivendicando un altro piano di pensiero e di esperienza, si è creato uno spazio politico e di relazione tra donne, in base alla necessità di ripensare e regolare i propri rapporti in assenza del maschile e della tradizione che esso porta con sé, elaborando delle mediazioni femminili che il sistema dei rapporti sociali tradizionale non dispone.

 

La parola, legata ai corpi e alle esperienze diviene pilastro di quel movimento che caratterizza la pratica politica delle donne

 

La pratica del separatismo femminista, non porta con sé l’idea di una spartizione del mondo, di un’incomunicabilità tra i sessi o una chiusura del femminismo ai rapporti con gli uomini. L’idea di parzialità, infatti, richiama quella della complementarietà, che il femminismo rifiuta. Il separatismo fu per le donne l’occasione di una messa a tema della propria libertà, facendo leva sulle contraddizioni della società, che ognuna viveva in sé senza che ne fosse nominata la valenza politica Contro la politica dell’organizzazione e del proselitismo, le donne avviano la pratica delle riunioni in piccoli gruppi. Il gruppo di autocoscienza diviene l’unità di misura elementare, in cui le donne possono operare una centratura sulla propria esperienza e sulle contraddizioni che vivono individualmente e collettivamente all’interno della società. Punto di partenza: la consapevolezza che la mancanza di comunicazione tra donne nel contesto contemporaneo non è imputabile a difficoltà personali nell’interazione con l’altra, ma ha una radice culturale nei modelli eteronomi che da sempre gravano sulla soggettività femminile.

La parola, legata ai corpi, alle esperienze e alla materialità delle esistenze in gioco, diviene pilastro di quel movimento tra dentro e fuori, interiorità e mondanità che caratterizza la pratica politica delle donne. Partire da sé non è raccontare un vissuto, ma definirsi in un contesto; così l’autocoscienza non è un ripiegarsi su se stesse, sulla propria esperienza individuale o di piccolo gruppo, ma è un movimento ininterrotto che porta ognuna a partire da sé per poi separarsene e andare altrove. Non conduce a nessuna verità ultima, univoca, apodittica; la verità del partire da sé nasce dalla contingenza e ad essa si lega, mostrandola in modo sapiente e consapevole. Il femminismo porta avanti in modo sessuato quel taglio radicale che la rivolta disegna, marcando decisamente la propria distanza dall’esperienza rivoluzionaria e dalle sue contraddizioni e ambivalenze. È pura esperienza dello slancio di rivolta che non paga il prezzo dell’immissione nel percorso storico e si mantiene fuori dalla logica del potere, delle istituzioni, del partito e dell’Idea, senza per questo perdersi nel dissipamento delle forze e del desiderio.

Questo è possibile grazie allo spostamento rispetto al simbolico politico tradizionale e alla centratura sulle pratiche relazionali in cui la soggettività è mantenuta viva, radicata al proprio essere, alla propria esperienza, in relazioni politiche radicate e vissute. Autenticità, condizioni materiali e personali, produzione delle condizioni della propria esperienza sono il modo in cui le donne del femminismo allontanano l’ideologia, la gerarchia, la sclerotizzazione dell’organizzazione.

 

(www.che-fare.com, 16/09/2015)

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