19 Febbraio 2012
il sole 24 ORE

Questa per me è la letteratura

Anna Maria Ortese

Ora può darsi che le mie idee sul mondo, e sulla poesia ch’è il suo seme, siano poche e sguarnite, ma vedrò di esporle ugualmente e dire perché questi ritmi di Paola Masino mi sembrano poetici, e quindi più vivi di lei stessa che li ha formati e di chi per caso ne parli. E cosa intendo per poetico.
Nel mondo c’è la ragione, e tutti lo sappiamo perché, bene o male, la società è un’organizzazione della ragione. La ragione è organizzazione a sua volta delle facoltà umane, e superamento degli istinti sottoposti a quelle facoltà, affinché l’uomo possa continuare a chiamarsi uomo, cioè scelta, direzione, selezione. Però, questa gran ragione o ragionevolezza, essendo anche compressione e chiusura, è soggetta a delle lacerazioni, a delle dimenticanze di sé così profonde e repentine, che talora sembra entrare in agonia. Quando questo accade nel tessuto civile, la società conosce anarchie e agonie, che altro non sono se non la visione di una possibilità più alta, che non si vede disgraziatamente come raggiungere, commiste come sono tali istanze a infinite pressioni minime, contrarie e perfino armate contro tale possibilità. Quando invece questo avvenimento si verifica nel luogo proprio alla ragione, la letteratura, o insieme di edifici espressivi, città dell’eterno farsi e svanire storico, si ha, suppongo, la poesia: che è, anche qui, improvvisa dimenticanza e laceramento della ragione, e visione, entro la ragione, di una possibilità più alta: l’antico istinto o un istinto futuro. La vita, poi, e la ragione stessa, tra queste cadute della ragione si rinnovano, e da quelle strutture solo momentaneamente cadute, vedi sorgerne altre, più pure, più nuove; e sono le medesime, solo trasformate da questa nuova visione. Questa dimenticanza della ragione chiameremo purezza assoluta, e si chiama infatti poesia. (…) Ma ecco che questa ardente apparizione, nella società, può accadere anche come imitazione o camuffamento; mentre nella vera dimenticanza della ragione, la ragione, come nel sonno, scompare, e si fa luogo la conoscenza del vero, col suo dolore così intollerabile da chiedere, a esprimersi, un ritmo che lo consoli. E proprio questo ritmo, spesso così giusto, così ormai incancellabile, dice che il dolore della scoperta (del vero) fu reale, fu grande, tanto che occorse un aiuto; mentre da somiglianti cadute della ragione, nella società, proprio l’assenza di ritmo, di purezza, di canto, avvertono che la caduta fu consolata dalla pratica, da valori pratici, e quindi non ci fu vera lacerazione, vera caduta, e queste sono ancora delegate e consumate dalla mente del singolo. E per questa capacità del singolo di accogliere e sopportare il dolore (della verità) sospeso nel mondo, può accadere perfino che il mondo ne faccia, di questo dolore, continuamente a meno, delegando eternamente, a sostenerlo, il singolo. Come in realtà si verifica: e dal singolo, solo dal singolo, o uomo dell’assoluto, cioè della poesia, partono così le istanze per i rinnovamenti e mutamenti; che poi la comunità prende come sue, volgarizzandole; finché nuovi spaventi, nella società, eleggono ancora, ad esprimerli, l’uomo poeta, che infatti li esprime, e come uomo ne è ucciso.
Questo mi pare dunque il fare poesia: morire sotto una verità, grande o minima, ma verità sempre, che la comunità non può accogliere, perché la sua sede è il singolo, ma può, di volta in volta, consumare o suggerire. La letteratura nasce da questo; e così, senza letteratura, non vi sono neppure accadimenti storici, cioè un farsi e rifarsi umano. Vedi le grandi letterature del passato tutte annunciare, nel loro calore, il farsi di un popolo, o, nel loro gelo, indicarne la morte. E anche oggi, dove sorge una letteratura, dove odi voci nuove, là sta un popolo; e dove queste voci si spengono, là un popolo ha finito d’essere storia. Per letteratura, io intendo sempre una grande luce di parole (che iniziano o finiscono) intorno al fuoco bianco e taciturno di uno spirito, ch’è il genio di quel popolo morto o nascente che sia. E quando la luce cresce, significa che quel popolo sta formandosi; quando diminuisce, ed è gelo, che quel popolo è esaurito. La poesia colta, che poi diviene mera cultura, o museo di simboli, ci avverte sempre di una perdita simile. Ma, a volte, in tale ghiaccio serpeggia ancora una linea di fuoco. Quella poesia colta, freddissima, ha un che di vivo, è il vivente che sopravvive. Te ne accorgi dalla dolcezza, come tu fossi ancora vivo, che muove in te (vivo come comunità).

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