26 Marzo 2021
7 - Corriere della Sera

Rebecca Solnit: «I disastri ci risvegliano dal sonno. Cambiare è possibile»

di Daniela Monti


Rebecca Solnit scherza e dice di vivere in lockdown dal 1988, «da quando ho lasciato la redazione per cui scrivevo, per poi perdere un altro posto e diventare un’autrice indipendente. Pensavo che mi sarei trovata un nuovo lavoro, ma non ne ho ancora avuto il tempo. Per scrivere non-fiction bisogna uscire e fare ricerca, ma per la maggior parte del tempo si sta da soli a casa propria. Lavorando in un bell’appartamento, con un reddito abbastanza fisso e senza bambini in giro, per me è stato tutto molto semplice durante la pandemia, e sono consapevole che la mia situazione è ben diversa da quella di tante altre persone che hanno dovuto affrontare ogni genere di problema».

La stampa americana, in questo ultimo difficile anno, l’ha ribattezzata “la voce della resistenza”: sessant’anni a giugno, scrittrice e attivista, i suoi lavori sulla politica, il femminismo, l’ambiente sono una ricerca (o un auspicio) di visioni del mondo più complesse, varie, audaci, forse pazienti. Un tentativo di dare un valore a ciò che sembra non averne, di riconoscere le rotte indirette degli uomini e della storia, e le loro conseguenze a lungo termine. Di contrastare la disperazione con la speranza. Una ricerca sull’importanza di non chiudere la porta all’incertezza e alla sorpresa. Di rivalutare il lavoro lento che getta le basi di ciò che sembra accadere improvvisamente, con una svolta o una rivoluzione sociale. Di superare l’idea dell’eroe solitario e imparare ad apprezzare i direttori di coro che permettono a gruppi interi di esprimere il proprio potenziale eroico. Ha dato spessore a neologismi come mansplaining, spiegazione non richiesta e paternalistica fatta da uomini a donne che non ne hanno bisogno (Gli uomini mi spiegano le cose, raccolta di saggi pubblicata nel 2014, è fra i suoi libri più noti e divertenti). Un neologismo fortunato, padre di molti figli: l’ultimo è whitesplaining, i bianchi mi spiegano le cose.

«Sì — dice dalla sua casa di San Francisco, intrecciando la Storia e le storie, l’attualità e il desiderio di fare una lunga passeggiata fin sulle colline dietro Berkeley — ho l’impressione che la pandemia rappresenti un evento epocale, come un muro che ci separa da chi eravamo e da come vivevamo». Racconta di essere stata molto colpita dal modo in cui le persone si sono adattate a una vita improvvisamente molto più “locale”. «Ma uno degli aspetti interessanti di questa pandemia e che non ritroviamo, per esempio, in un terremoto o in altri disastri, è il fatto che le persone hanno fatto esperienze diverse: gli infermieri hanno lavorato perfino di più, mentre musicisti e camerieri sono rimasti del tutto fermi; chi vive da solo potrebbe essersi sentito terribilmente abbandonato, mentre nelle famiglie numerose ci sarà stato chi sognava un po’ di tempo con sé stesso. La pandemia ha rovinato finanziariamente tante persone, che negli Stati Uniti sono divenute pressoché invisibili: sarà soltanto tra qualche anno che capiremo meglio questi effetti». Da attivista per il clima, dice che il coronavirus ha spazzato via le due scuse normalmente addotte per non agire contro la catastrofe climatica: l’impossibilità di cambiare dall’oggi al domani il nostro modo di vivere e, per i governi, di destinare in breve tempo enormi somme di denaro per affrontare specifici problemi. «Lo vedete? Abbiamo appena fatto entrambe queste cose. Tuttavia, molto di ciò che accadrà dopo la pandemia dipenderà da quale narrativa noi ne faremo. Chi eravamo? Cosa abbiamo imparato? Cosa vogliamo portarci dietro della vita radicalmente diversa che abbiamo condotto? Chi è stato trattato in modo ingiusto e cosa possiamo fare per cambiare tutto ciò?».

I piedi piantati nella speranza

Ora che in Italia esce la biografia Ricordi della mia inesistenza (Ponte alle Grazie), Solnit fa il punto del suo lavoro. Che ha una particolarità: l’effetto straniante di preveggenza. La riflessione sulla speranza, per esempio: Hope in the Dark, il libro uscito nel 2004 dopo che i movimenti contro la guerra non erano riusciti a fermare il conflitto in Iraq — suffragando apparentemente l’idea che darsi tanto da fare non serve a nulla, le armi e il potere vincono sempre — è fra i suoi testi più riletti proprio oggi che la speranza, il bisogno di motivazione oltre la paura, è elevata a «strumento di salute pubblica», come ha scritto il New York Times commentando i discorsi di Biden, strumento ben più potente del pessimismo e dell’ottimismo, che hanno prodotto entrambi parecchi danni nella gestione della pandemia. Quello che dobbiamo fare, dice Solnit, è piantare i piedi nella speranza, che non è buon senso e neppure “andrà tutto bene”. È resistenza e sfida, vedere il mondo com’è e come potrebbe essere, mettendoci in moto in prima persona perché il cambiamento avvenga. Luogo della lotta e della gioia della lotta. «Se assumete una prospettiva di lungo periodo», dice, «vedrete come sorprendentemente, inaspettatamente ma regolarmente le cose cambiano. La disperazione spesso viene fuori da questa amnesia, dal dimenticarsi che tutto è in movimento».

«Fin da quando avevo 15 anni, sono stata affascinata da come la gente risorge dai disastri», scriveva in Hope in the Dark, anticipando il tema di un altro suo lavoro importante, A Paradise Built in Hell,

Un Paradiso all’inferno. Il disastro come momento, drammatico e magico insieme, in cui avviene qualcosa. La speranza è la chiave per superare questa pandemia?

«I disastri di cui ho scritto in Un paradiso allinferno erano perlopiù di carattere fisico (un terremoto, l’uragano Katrina che ha devastato New Orleans)» risponde, «e si abbattevano all’improvviso, mentre la pandemia non ha dato segni diretti, solo un lento progredire da una persona all’altra che non si è ancora fermato e continua a mutare. La sospensione della quotidianità e la necessità di improvvisare una risposta hanno messo alla prova le istituzioni e la società civile producendo, a mio avviso, sia le migliori sia le peggiori reazioni alla crisi e alla catastrofe. Tra i migliori esempi, le tante persone che hanno semplicemente continuato a fare il proprio mestiere, anche se questo era divenuto all’improvviso più difficile e pericoloso. Alcuni hanno messo in atto nuovi modi di raggiungere e aiutare chi aveva bisogno. La mia amica Wendy McNaughton ha iniziato a dare lezioni di disegno online ai bambini e anche io ora faccio parte dell’Auntie Sewing Squad, un gruppo che conta diverse centinaia di membri, formato perlopiù da donne di colore e di origini asiatiche, che da casa cuciono mascherine in tessuto per le persone più vulnerabili e meno assistite. Abbiamo distribuito oltre 250 mila mascherine e collaboriamo con le comunità di immigrati, nativi americani e altri gruppi sociali. Questa può essere definita una “disaster community” in quanto ha dato vita a relazioni tra singole persone e nuove strutture sociali, facendo emergere nuove capacità».

Solnit ha definito un’«emozione più seria della felicità» la sensazione di speranza che pervade le comunità nel momento in cui l’ordine crolla e bisogna rimboccarsi le maniche per tirarsi fuori dai guai. Ma perché non riusciamo a stare, come gocce granitiche, dentro quell’emozione, trattenendo viva nel tempo la speranza? Perché, passata l’ondata, passati i primi tempi in cui in Italia si cantava dai balconi, queste “disaster communities” perdono la loro forza, collassando? «Quando la città crolla, la terra trema o la tempesta imperversa, ti risvegli dalle distrazioni dorate di ogni giorno e dall’egocentrismo, e vedi con occhi nuovi la gente attorno a te, capisci quanto le cose dipendano le une dalle altre, come possono cambiare e cosa è davvero importante o, ancora, ti diventa chiaro che persona puoi essere e trovi un senso di immediatezza e, spesso, di intrepidezza e connessione. Nella maggior parte delle società, questi cittadini “risvegliati” minacciano lo status quo perché si sentono forti, mettono passione nel prendersi a cuore le situazioni, cambiano le cose e mettono in discussione quelle autorità che nella crisi hanno fallito, per indifferenza o incompetenza». E poi? «Succede qualcosa per cui queste persone vogliono rimettersi a dormire: i loro risultati e il loro potere non vengono riconosciuti, viene detto loro di fidarsi delle autorità e delle decisioni che vengono prese, o si sentono raccontare storie più elaborate sul capitalismo e il consumismo in base a cui niente è collegato e ognuno è al mondo per occuparsi unicamente della propria felicità come singolo, e non della collettività, dell’umanità o del pianeta».

Costruire il futuro

Sperare dunque è restare svegli? «A volte penso che il mio concetto di speranza sia un misto di impegno e consapevolezza della profonda incertezza del futuro», riprende la saggista. «Qui negli Stati Uniti sento molti parlare del futuro come di un oggetto lontano, già completamente formato, che diventa più grande man mano che ci si avvicina. Quello che io, invece, voglio far capire è che il futuro lo costruiamo oggi, con le nostre azioni, indolenze, scelte e priorità. E poi che abbiamo un grande potere, non sempre come singoli ma spesso come collettività». La clinica aperta a New Orleans poco dopo Katrina, racconta Solnit, è ancora attiva. Dal disastro economico che ha innescato la contestazione Occupy Wall Street è nato un movimento contro gli abusi del sistema del debito statunitense che ha raggiunto molti traguardi in termini di delegittimazione del sistema e conquiste concrete. E prosegue con un altro esempio per dare corpo alla sua idea di speranza e dimostrare che «la storia non smette mai di stupirci» anche se a volte le cose cambiano a passi talmente piccoli che è difficile riconoscere in quei passi la causa di cambiamenti immensi. All’interno del movimento per l’abolizione della schiavitù nell’impero britannico e negli Stati Uniti, racconta, è nato nel 1840 il primo movimento abolizionista femminile, quando le donne si resero conto che non sarebbero state ammesse alla grande conferenza antischiavista di Londra. Sessant’anni più tardi, le suffragette della Gran Bretagna ispirarono il Mahatma Gandhi a tornare in Sudafrica e avviare la sua prima campagna non violenta: proprio da queste tattiche e ideali scaturirono non solo la liberazione dell’India dal colonialismo, ma anche una marcata influenza su Martin Luther King e sul movimento americano per i diritti civili, che tuttora rappresenta nel mondo un modello per altri movimenti di liberazione e per i diritti. Ecco dunque che quanto avvenuto nel 1840 a un congresso a Londra riecheggia ancora…

La speranza, allora, ha bisogno di pazienza: quella del contadino che pianta un albero e sa che servirà tempo per assaggiarne i frutti. Ma sappiamo ancora aspettare? Cosa rispondere a chi dice: voglio vedere i risultati! «Qualche anno fa Maria Popova, scrittrice bulgara trapiantata negli Stati Uniti, ha detto che “il pensiero critico senza la speranza è cinismo, ma la speranza senza il pensiero critico è ingenuità”. Adoro il fatto che abbiate scelto una metafora agricola: gli alberi piantati, i mesi dell’attesa… Siamo spinti, credo, a vedere tutto come una fabbrica in cui “non sta accadendo nulla” se, in qualsiasi momento, non vediamo cumuli di prodotti uscire dalla linea di assemblaggio. Come possiamo fare per metterci in testa che chi oggi sviluppa un vaccino, quarant’anni fa era l’allievo di un maestro paziente? O che i milioni di maestri che insegnano a leggere a decine di milioni di bambini stanno tutti svolgendo un compito dal valore immenso? Siamo affetti come da un’amnesia che ci impedisce di vedere quali sono le cause e le conseguenze di “ciò che è successo oggi”».

Chi insegna a non sperare

La speranza che sconfigge la paura Solnit ha cercato di insegnarla attraverso i suoi racconti. Storie di come funziona il cambiamento, dei suoi effetti indiretti e a lungo termine e di come gente comune abbia migliorato il mondo. «Credo che la mancanza di speranza venga insegnata attivamente da numerosi e potenti protagonisti della vita pubblica: lo spettacolo, la pubblicità diretta al consumatore e il governo. Ci insegnano che siamo al mondo per perseguire i nostri interessi egoistici, che non si deve per forza dare valore a ciò che non si può possedere o utilizzare, che noi stessi (in particolare le donne) siamo merce a cui dare un prezzo di mercato e che la politica compete a qualcun altro, incoraggiandoci a pensare a cose frivole e senza spessore. Credo che l’egoismo porti all’isolamento e l’isolamento alla disperazione. È una visione tristemente riduttiva di ciò che significa essere umani». Solnit invita a «lasciare aperta la porta all’ignoto, la porta all’oscurità» perché è quando ci si perde che si trovano le cose importanti (e quindi rivendica come «davvero politico» anche la sua Storia del camminare, saggio che indaga tutte le possibilità racchiuse nel semplice gesto di muoversi a piedi). Ma questa pandemia ci ha tolto la possibilità dell’imprevisto, di un incontro fortuito. Si può vivere rinunciando all’imprevisto? «Quando le nostre vite e le società hanno cambiato forma da un momento all’altro, credo che tutti ci siamo trovati di fronte all’inatteso, e nell’improvvisazione abbiamo trovato la possibilità di fare le cose diversamente. Credo anche che l’imprevisto abbia già rischiato di uscire dalle nostre vite e i giovani che vedo qui all’ombra della Silicon Valley sono stati particolarmente colpiti. Non andare mai da nessuna parte senza lo smartphone, seguire pedissequamente le sue indicazioni senza improvvisare o esplorare quasi fino a perdersi. Essere sempre in contatto con le persone che già si conoscono e strutturare in anticipo e con attenzione tutta la propria vita sociale con sms e WhatsApp: i giovani hanno già in gran parte abolito spontaneità e casualità».

Tutto ciò che facciamo è un atto politico

Gli intellettuali restano svegli? Essere “impegnati” è oggi la sola opzione possibile? «Non soltanto scrittori e intellettuali, ma ciascuno di noi è tenuto a essere parte di qualcosa di più grande, a comportarsi da cittadino, ad accettare che tutto ciò che facciamo (e non facciamo) è un atto politico in quanto porta a delle conseguenze. Pensando a chi ha modo di far sentire la propria voce: se non portate avanti un impegno, cosa vi rimane da dire? Ci sono — o, meglio, c’erano — tanti scrittori americani (eterosessuali bianchi) che paiono credere all’esistenza di una realtà apolitica in cui possono sollazzarsi. Questo però significa non voler vedere che la politica ridisegna le nostre vite in modi diversi a seconda che siamo ricchi o poveri, che apparteniamo a un gruppo oppresso o privilegiato e abbiamo o meno accesso all’istruzione». E racconta di aver portato a termine da poco un libro su George Orwell, che nel romanzo distopico 1984 scriveva: «Il Partito vi diceva che non dovevate credere né ai vostri occhi né alle vostre orecchie. Era, questa, l’ingiunzione essenziale e definitiva». «Se ribaltiamo questa affermazione» dice «vediamo che basta fare affidamento sui nostri occhi e le nostre orecchie per compiere un atto di resistenza, che è importante tenere ogni giorno alta la guardia e vivi l’impegno e l’indipendenza di pensiero, e che tutto questo può essere portato avanti in modo apparentemente non politico, per prepararsi a quando si presenterà una situazione politica».

Giocando con il titolo della sua biografia intellettuale, Ricordi della mia inesistenza, la sua personale “inesistenza” è solo un ricordo del passato oppure quella sensazione vivida di inadeguatezza, di inconsistenza, di non essere ascoltata in quanto donna in un mondo dominato da uomini, che lei racconta così bene nel libro, si riaffaccia anche oggi? «Sì, l’inesistenza riguarda il passato, ma subirò sempre l’influenza di quegli anni. La mia esperienza, estremamente comune, è stata trovarmi da ragazza a fare i conti con il fatto che tanti uomini avrebbero voluto farmi del male e il fatto che la società ignorasse la questione o pensasse fosse normale. Quindi non solo ho vissuto una costante minaccia, ma anche quando confidavo a qualcuno di essere seguita per strada o di subire maltrattamenti sul lavoro, venivo considerata delirante, iperemotiva. Alla fine sono riuscita a farmi sentire, sono diventata una scrittrice. Quello che mi è rimasto però è la poca fiducia nel fatto che gli altri mi credano, quel lottare, sempre, per essere ascoltata».


(7 – Corriere della Sera, 26 marzo 2021)

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