2 Settembre 2022
Diotima Filosofe

Recensione a “Noi le lesbiche. Preferenza femminile e critica al transfemminismo” di Cristina Gramolini, Sabina Zenobi, Flavia Franceschini, Lucia Giansiracusa, Stella Zaltieri Pirola

di Chiara Zamboni


Presento un libro che ha come ragione interna ed intenzione quella di ricostruire gli anni di dibattito e conflitto vissuti da Arcilesbica a partire dal 2016 in Italia. È intitolato Noi le lesbiche. Preferenza femminile e critica al transfemminismo. Le autrici sono Cristina Gramolini, Sabina Zenobi, Flavia Franceschini, Lucia Giansiracusa, Stella Zaltieri Pirola. È edito da Il Dito e la Luna (Milano 2021).

Perché le autrici definiscono il 2016 come un momento di svolta? Perché, scrivono, nel maggio del 2016 è stata approvata la legge sulle unioni civili, frutto di una convergenza tra diverse forze politiche e il movimento gay e lesbico. A loro modo di vedere, il movimento Lgbtq di cui Arcilesbica aveva fatto parte integrante fino a quel momento, si è andato allora frantumando internamente per spinte molteplici. Le differenze tra le diverse componenti sono emerse in modo forte, rendendo impossibile quella che era stata precedentemente una convivenza politica militante e fruttuosa.

Dal libro si può ricostruire che due sono stati i motivi più importanti che hanno portato alla rottura di Arcilesbica nei confronti del movimento Lgbtq.

Il primo e più fondamentale motivo di conflitto è stato la contrapposizione netta sulla questione della maternità surrogata. Arcilesbica si è dichiarata contraria perché la maternità surrogata (o per altri) significa sfruttare il corpo delle donne e ridurre la maternità ad un fatto commerciale di scambio di denaro gestito da aziende private. E anche nel caso la donna che si offre venga soltanto rimborsata, il rimborso risulta di fatto una specie di pagamento indiretto. La maternità surrogata viene vista sullo stesso piano della prostituzione, in quanto è la vendita del corpo della donna per denaro.

Lo scontro sulla maternità surrogata ha attraversato in quegli anni anche Arcilesbica, e deve essere stato molto duro e doloroso se una parte delle iscritte, non d’accordo con la linea maggioritaria, è uscita dall’organizzazione.

Il secondo motivo di conflitto riguarda una tendenza politica e culturale più generale che Arcilesbica critica nel movimento Lgbtq. Un conto è – le autrici sostengono – concentrarsi su obiettivi precisi e concordati da realizzare politicamente assieme e che riguardano diritti fondamentali dell’essere umano, altro conto è far proliferare la richiesta di diritti in modo illimitato in risposta a qualsiasi cosa manchi e spezzettando le differenze, facendole sempre più minute. Una specie di coazione alle richieste di diritti specifici e settoriali. Ed in più di questi diritti si dovrebbero far carico lo Stato e le istituzioni, a causa di una visione di richiesta di tutela all’interno di una rappresentazione del soggetto sempre e comunque discriminato e minoritario. Seguendo questa tendenza, il movimento Lgbtq ha rinunciato ad avere una visione più ampia e più propositiva della realtà.

Sono d’accordo con questa critica ad una visione di diritti sempre più minuti non soltanto da parte del movimento Lgbtq, ma che vedo come una deriva della democrazia europea. Si perde di vista una concezione più autenticamente politica di far vivere una civiltà che ci corrisponda. Si smarrisce il senso della polis che nasce dalle nostre relazioni e non dal delegare alle gerarchie di potere e alle istituzioni il realizzare le forme della convivenza.

Tuttavia, per comprendere questo libro che sto presentando, occorre vederlo in rapporto ad un dibattito sempre più aspro, sempre più privo di mediazioni a partire dall’introduzione del termine “trans” in rapporto al femminismo. Non a caso il sottotitolo è: Preferenza femminile e critica al transfemminismo.

La parola trans assume tante, diverse connotazioni a seconda del contesto in cui è declinata. Ad esempio, trans può voler dire la parte più trasgressiva che va oltre il femminismo tale e quale. Oppure che lo attraversa diagonalmente. Può essere un significante vuoto che può essere riempito con libertà. Ma nello specifico viene per lo più interpretato come una presenza egemonica del movimento transessuale. Cioè non soltanto il fatto che al movimento transessuale occorre dare il suo giusto valore, ma che esso è divenuto la misura degli altri movimenti. È per questo che ho usato la parola “egemonico”.

Le autrici del libro sottolineano che non si tratta soltanto di differenza di visioni che sono andate maturando in questi anni, ma anche di uno stile di discussione che si è instaurato e che è decisamente troppo violento.

Mi sono chiesta perché mi interessa il libro Noi le lesbiche. Non sono una storica dei movimenti, ma certo sono sempre molto attenta a quello che sta avvenendo nei movimenti in quanto penso che la politica più viva sia quella relazionale e non quella istituzionale. I conflitti così duri in atto nei movimenti non aiutano quella politica che sento viva e che trova per me il suo luogo più fertile nel femminismo, ma non soltanto nel femminismo. E quindi mi preoccupo quando le cose si fanno stridenti e l’atmosfera tesa, dura. Mi sembra una perdita complessiva di orientamento.

Ma questo libro mi interessa anche per un altro motivo. Perché ha notevole capacità di pensiero teorico-politico. In altri termini le autrici, per spiegare le loro posizioni, sulle quali si può essere d’accordo oppure no, lavorano sulle idee politiche dando loro tutto il peso filosofico che esse possono avere.

Innanzitutto, pongono al centro un pensiero sessuato. Questo le accomuna sia al pensiero della differenza sessuale sia al pensiero Lgbtq, nei limiti in cui quest’ultimo non scivola nel neutro indistinto.

Pongono fin dall’inizio una definizione: essere lesbica riguarda una donna che ama un’altra donna. Ma questa presa d’atto è solo un inizio, per aprire non soltanto a sperimentazioni esistenziali non prescritte e non previstema anche a forme di socialità alternative a quelle prevalenti. Dunque, la sperimentazione altra che questa situazione apre si traduce immediatamente in una critica politica al patriarcato ora sostituito dalla fratria, cioè dal legame profondamente omosessuale tra fratelli maschi che si distribuiscono il potere nelle democrazie occidentali e non hanno che questo da offrire alle donne includendole nei legami di potere maschili. Fondamentalmente la critica viene portata all’ingiusta gerarchizzazione dei rapporti tra uomini e donne, che continua anche nelle forme di politica maschile contemporanea. In questo modo la posizione politica del libro si inscrive nel femminismo che pone al centro il di più che le donne possono offrire alla società, non omologabile alle forme di potere proposte dal mondo maschile.

In questo senso le autrici prendono le distanze dal paradigma prevalente oggi nel movimento Lgbtq. Un paradigma che pone al centro l’eterosessualità normativa come misura di tutte le differenze. Pur non negando ovviamente la posizione di dominio del modello eterosessuale nella società, dato che, amando una donna essendo una donna, ne hanno sentito tutto il peso performativo; tuttavia, non fanno dell’eterosessualità normativa il perno per definire per differenza le lesbiche, i gay, i/le trans, i queer e altro. Soggettività che rientrerebbero tutte sotto la categoria di differenti dall’eterosessualità normativa. Cosa a cui loro si oppongono.

Il paradigma della eterosessualità normativa è in conflitto e tende a cancellare il paradigma della differenza sessuale. E le autrici sostengono questo secondo, dando un contributo preciso sia nella critica sia nella proposta al pensiero della differenza sessuale, in cui si riconoscono. Dove il problema è piuttosto la questione maschile e quali forme oggi prenda.

È per questo che le autrici criticano la gestazione per altri, la Gpa o utero in affitto. Perché si tratta ancora una volta dello sfruttamento del corpo delle donne per usi commerciali secondo un dominio di mercato neoliberista apparentemente neutro, ma in realtà di impronta maschile. Un neoliberismo che baratta per libertà individuale delle fattrici quello che è uno sfruttamento legato alla povertà e al bisogno occasionale di denaro. Cancellando la storia personale di sofferenza che è dietro ogni scelta di divenire fattrici.

Proprio in relazione alla maternità surrogata esse mettono a fuoco con molta chiarezza la questione del limite. Lo individuano nel fatto che non si può fare merce del corpo umano, di nessuna sua parte, né si può fare commercio della vita. Si ricordi ad esempio il commercio di organi umani, che nel nostro ordinamento possono essere soltanto donati.

L’accento più aspro del libro si avverte quando critica il transfemminismo. Non tanto nella forma con cui il movimento Non una di meno l’ha assunto per poter costruire tramite esso “una potenziale sintesi tra tutte le forme di anticapitalismo”, cosa che anche per le autrici può risultare interessante. Ma criticano il transfemminismo nella forma per cui esso va nella direzione di aver allargato la parola femminismo, sottraendola alla sua genesi storica, per farvi includere tutte le soggettivazioni individuali, fluttuanti e trasgressive. Denunciano il fatto che c’è stata una vera e propria occupazione del femminismo, sottraendolo alle donne, alla loro storia e alla loro genealogia, per lasciarle sì, ma all’angolo, sopportate come una delle differenze, per fare spazio a soggettività fluide, gay, queer, trans e per fare del femminismo uno spazio inclusivo sradicato.

L’occupazione di questo spazio simbolico creato dalle donne ha estraniato la vita delle donne a sé stesse nel movimento assieme alle loro radici, a tutta una storia patita e amata.

Questo femminismo allargato e inclusivo trans viene definito per ogni sua componente dalla trasgressione nei confronti dell’eterosessualità normativa. Ed è per questo che l’atto di occupazione del femminismo da parte del transfemminismo mostra ancora una volta il conflitto tra i due paradigmi che ho descritto sopra, quello dell’eterosessualità normativa e quello della differenza sessuale.

Le autrici prendono posizione, come dicevo, per la differenza sessuale, il che significa per loro una precisa collocazione in quanto lesbiche. Scrivono infatti: «L’identificazione primaria con tutte le donne (al di là del loro orientamento sessuale) ci indica la lotta al dominio maschile e per la libertà femminile come la via primaria alla liberazione. Noi lesbiche pensiamo che la visione transfemminista sia una trappola per le donne in quanto non nominano l’oppressione prima, quella sessuale, ci porta nel regno del neutro (su cui troviamo sempre il maschile) e ci impone trasgressioni che non ci interessano» [1].

Noi le lesbiche è evidentemente un libro militante, che però ha anche il merito di mettere in chiaro molti concetti che circolano nel dibattito attuale in modo preciso ed efficace.

Prima di concludere, vorrei portare due critiche al testo. La prima è questa. Le autrici insistono sul fatto che le donne sono tali per natura, il corpo è connaturato biologicamente, e occorre criticare l’identità di genere. Scrivono: «La distinzione tra sesso e genere è stata elaborata in profondità dal femminismo e ne rappresenta una importante conquista che permette di distinguere il dato biologico (sesso) dal costrutto sociale, sottraendo a quest’ultimo il carattere di naturalità e immutabilità» (p. 50). In questo modo fanno propria e rilanciano una proposta teorica del femminismo statunitense che pone la coppia complementare sex (biologico)e gender, costrutto linguistico, collocando la possibilità di intervento politico sul gender. Questa separazione netta tra dato di fatto biologico e linguaggio storico, di matrice anglosassone, ha portato diverse conseguenze negative di natura epistemologica e politica. La più importante è pensare che il corpo non abbia niente a che fare con il linguaggio, mentre c’è una circolarità che corrisponde poi alla circolarità tra esperienza e linguaggio. In cui non c’è un prima e un poi, proprio perché si influenzano a vicenda. Usare il termine “per natura” è scivolare in un dato biologico fattuale. Naturalmente le autrici del libro sanno bene che il corpo è significato da un contesto storico-culturale, ma comunque si attestano sulla distinzione sesso naturale, linguaggio storico.

Nel pensiero della differenza abbiamo piuttosto parlato di porosità tra corpo e linguaggio, evitando ogni forma di naturalizzazione fattuale del corpo. Faccio riferimento al fatto che noi siamo già pensate, in quanto creatura a venire, da nostra madre prima del concepimento e dunque nasciamo essendo precedute da un discorso simbolico sedimentato nei sogni e nell’immaginario di nostra madre. Poi per come nasciamo, – bambine, bambini, intersex – è qualcosa che si inscrive in questo pensiero simbolico che ci precede con il quale inevitabilmente interagiremo nel nostro processo di soggettivazione.

E poi il corpo è corpo vivente, non oggettivo e il dato biologico è uno degli aspetti presi dentro un processo di soggettivazione fortemente relazionale fin dalla nascita. Il corpo vivente ha capacità espressive che coinvolgono il dato biologico inserendolo in un processo molto più ampio e connesso.

Un’ultima osservazione al testo, che riguarda un passaggio secondario ma significativo. Le autrici reinterpretano la classica distinzione butch-femme del lesbismo statunitense degli anni Cinquanta del Novecento come una strada che, per quanto riguarda le donne che si autodefinivano butch in una coppia lesbica, avrebbe portato queste donne ad una trasformazione trans se non avessero accettato il limite del loro sesso. È ovvio che è importante la questione filosofica del limite che esse in questo modo pongono, un limite che apre i giochi di sperimentazione piuttosto che chiuderli. Ma rimanendo alla singola questione, in realtà io credo che sia stato proprio il femminismo degli anni Settanta, della seconda ondata, a spazzare via i ruoli, a criticare il femminile e il maschile stereotipato (a cui la coppia butch-femme rimanda), proprio ripensando la differenza sessuale non in una coppia oppositiva ma a partire da una rielaborazione del legame singolare con il materno.

Le ruolizzazioni identitarie, che sopravvivevano nel lesbismo stesso, sono state modificate e lasciate cadere nella percezione di sé nel continuum materno, che le autrici stesse valorizzano con molta nettezza in questo libro.


[1] Vedi F. Franceschini, L. Giansiracusa, C. Gramolini, S. Zaltieri Pirola, S. Zenobi, Noi le lesbiche. Preferenza femminile e critica al transfemminismo, Il Dito e la Luna ed., Milano 2021, p. 50.


(www.diotimafilosofe.it, rivista “Per amore del mondo”, edizione n. 18/2022)

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