9 Settembre 2023
Il Quotidiano del Sud

Rileggere “L’accabadora”

di Franca Fortunato


Dopo la pausa estiva torno con questa rubrica onorando la scrittrice sarda Michela Murgia, a un mese dalla sua scomparsa. Lo faccio parlando del suo romanzo d’esordio “Accabadora” che ho letto per la prima volta dopo la sua morte. Io e lei non la pensavamo allo stesso modo su tutto ma questo non mi ha impedito di recensire su queste pagine alcuni dei suoi libri, l’ho fatto con rispetto delle mie e sue idee. L’ho ammirata per il coraggio e la forza che ha mostrato davanti alla morte, scrivendo e parlando fino alla fine. Il suo romanzo è ambientato nella Sardegna degli anni ’50 del secolo scorso, la cui trama ci parla di donne sapienti della civiltà della madre, la stessa che avevo conosciuto dall’esperienza di mia madre. Il libro, infatti, attraverso le protagoniste, Maria la figlia, Anna Teresa Listru la madre, Bonaria Urrai la donna a cui Maria è fille anima, parla di donne che nei rapporti tra loro e davanti alla vita e alla morte non cercano la legge, non rivendicano diritti, non vanno nei tribunali, ma si rifanno all’antico sapere della madre. Un sapere sulla vita e sulla morte che sa distinguere «un atto pietoso da un delitto» come fa l’accabadora (donna della morte) che in Sardegna nei secoli passati praticava l’eutanasia ai malati senza più possibilità di essere curati, su richiesta dei familiari o dell’ammalata/o. Bonaria Urrai, la sarta, è l’accabadora.

Un sapere materno che orienta il patto tra donne, tra Anna, vedova con quattro figlie, e Bonaria, anche lei vedova e benestante, che «andò da lei a parlare della possibilità di prendere Maria a fill’e anima». «Fillus de anima – scrive Murgia – è così che in Sardagna li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra». Bonaria «aveva fatto in modo di accompagnare la richiesta con un’offerta tale che alla vedova non venisse la tentazione di dirle di no. Anna accettò senza discussione». Maria «dopo sei anni di notti passate a condividere l’aria di una sola stanza con le altre tre sorelle» accettò di seguire Bonaria e da adulta pagò il suo debito di gratitudine. Ma, «nei tredici anni che visse con lei nemmeno una volta la chiamò mamma» ma zia, Tzia in sardo. Sua madre Anna l’affidò a Bonaria per necessità ma le rimase vicina e quando aveva bisogno di lei la chiamava e lei correva. La storia è simile a quella di mia madre. La nonna, col consenso del nonno, affidò mia madre piccola alla zia, per salvaguardarla dopo che la figlia, di cui mia madre prese il nome, morì bruciata mentre lei era a lavoro nei campi. Mia madre, come Maria, non ha mai chiamato la zia “mamma” e a noi figlie parlava di lei come la zia che l’aveva cresciuta come una figlia. Le era grata come anche a sua madre che le era stata sempre vicina, rendendola una bambina serena. La zia aveva sostituito la madre senza cancellarla. Due donne legate da un patto di gratuità che si fidavano l’una dell’altra. Questa è quella che chiamo civiltà della madre che oggi la pratica medico-commerciale dell’utero in affitto, che Michela sosteneva, si è persa, fondando il desiderio di avere un/a figlio/a sul diritto di usare e sfruttare il corpo di un’altra donna, come contenitore e incubatrice, cancellando totalmente la madre e l’esperienza materna, su cui si fonda l’umano. Maria sapeva che sua madre e le sorelle erano la sua famiglia, come lo era Bonaria con cui viveva e cresceva nell’amore. Non si crea una famiglia cancellando la madre, l’origine di tutte/i noi, di cui, prima o poi, si va alla ricerca come racconta Maria Grazia Calandrone nel suo libro autobiografico “Dove non mi hai portata”, candidato al Premio Strega e di cui scriverò la prossima volta.


(Il Quotidiano del Sud, 9 settembre 2023, con il titolo “A Michela Murgia a un mese dalla sua morte”)

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