6 Novembre 2016

Riletture: Virginia Woolf, Le Tre Ghinee. DEAR FELLOW OUTSIDER

di Sara De Simone

Contributo di Sara De Simone, dottoranda della Normale di Pisa, al ciclo “Riletture”, 11 ottobre 2016, ideato da Alessandra Bocchetti per la Casa Int. delle donne di Roma.

 

«Se dovessi fare un posto a questo capolavoro

nelle graduatorie della grande letteratura politica,

lo metterei vicino al Principe di Machiavelli» 

(Luisa Muraro)

 

DEAR FELLOW OUTSIDER

di Sara De Simone

 

Ho voluto intitolare questo mio breve intervento “Dear Fellow Outsider”, riprendendo l’intestazione di una lettera che Virginia Woolf ricevette da una delle lettrici di Le Tre Ghinee, alcuni mesi dopo la pubblicazione del libro.

“Cara compagna estranea” – le aveva scritto questa donna, Constance Cheke – “io non faccio parte della Sua stessa classe sociale, ho dovuto attendere che Smiths (era una catena di librerie) ne riducesse il prezzo da 6 a 2 sterline per comprarlo. Ciò detto, credo che Le Tre Ghinee dovrebbe essere letto in tutte le scuole, in tutti i college, in tutti i seminari.”

Furono molte le donne che, dopo l’uscita del pamphlet della Woolf, presero l’iniziativa di scriverle. Le arrivarono lettere da tutta l’Inghilterra, ma anche da California, Michigan, New York. Le scrissero donne impegnate nell’educazione femminile, donne intellettuali, femministe, ma anche impiegate, operaie, e poi alcuni lettori uomini: un libraio – che le assicurò che avrebbe fatto di tutto per suggerirlo ai suoi clienti – e perfino un autista di autobus, che – le confessò – aveva faticato tanto a trovare il suo libro ma era ben lieto di esserci riuscito.

Non mancarono le lettere di dissenso, ma ce ne sono poche nel fondo della Woolf. Forse perché trovarono subito, una volta lette, la via del cestino? O forse perché chi si prende la briga di scrivere una lettera privata a un autore è, nella maggior parte dei casi, chi si è sentito veramente coinvolto dalle sue parole e sente il bisogno di comunicarglielo.

Quel che è certo è che invece sulla stampa e tra gli amici intellettuali si scatenò un bel putiferio.

In pochi apprezzarono Le Tre Ghinee. Non piacque ai critici, non piacque agli amici. Maynard Keynes, l’illustre economista, appartenente come Virginia al gruppo di Bloomsbury, ne era stato irritato. Quella di Le Tre Ghinee – disse – “era una tesi sciocca e nemmeno ben scritta”; lo scrittore E.M. Forster, anche lui frequentatore del gruppo, lo definì un libro “bisbetico, risentito e pieno di lamentele”. Leonard, il marito, reagì tiepidamente alla lettura del manoscritto. Il libro non piacque nemmeno a Vita Sackville West.

I recensori accusavano la Woolf di essere politicamente naïf, niente di cui stupirsi visto che era fin troppo una “lady” – dicevano – una signora borghese immersa nel suo reame etereo. C’è chi, maligno, sul giornale Spectator ironizzava: “a volte risulta difficile credere che la Signora Woolf non sia il personaggio di un racconto inventato da Forster”. E continuava: “C’è qualcosa in lei un po’ vecchio stile, un po’ provinciale… forse anche un po’ stridulo?”.

Dal canto suo Virginia, che era stata tanto ostinata e coraggiosa da scriverlo, quel libro, non si fece fiaccare certo dalle critiche che ne derivarono. Anzi prima ancora di pubblicarlo, come ricorda Nadia Fusini in Possiedo la mia anima (p. 257), aveva “profeticamente annunciato” a sua sorella Vanessa: “Non mi rimarrà un amico, dopo che sarà pubblicato il libro”.

Ma che cosa fece irritare così tanto critici e amici? Cosa infastidì? Cosa non piacque?

Molti non tollerarono che Virginia, in un momento tragico come quello, con la guerra alle porte, si mettesse a parlare di diritti delle donne. Insomma, c’era ben altro a cui pensare.

E poi, quel legame che lei aveva voluto vedere tra patriarcato, fascismo e nazismo loro non lo vedevano… o, se lo vedevano, gli sembrava esile, tenue. E i consigli di Virginia su come evitare la guerra? Erano del tutto inadeguati.

Doveva, in effetti, essere molto difficile per un inglese digerire, ad esempio, righe come quelle in cui la Woolf, rivolgendosi all’avvocato antifascista suo interlocutore, proponeva, implacabile, una tale corrispondenza:

“Le femministe in realtà furono le antesignane del Suo stesso movimento. Combattevano il medesimo nemico per i medesimi motivi. Combattevano contro l’oppressione di uno stato patriarcale come voi combattete contro l’oppressione di uno stato fascista. Ma ora, la Sua lettera ci garantisce che oggi voi combattete al nostro fianco, non contro di noi. È una circostanza così straordinaria […]. Ora voi provate sulla vostra persona quello che hanno provato le vostre madri quando furono escluse, quando furono imprigionate perché erano donne. Ora voi siete esclusi, ora voi siete imprigionati, perché siete ebrei, perché siete democratici, per ragioni razziali, per ragioni religiose. Non è una fotografia quella che vi sta davanti, siete voi stessi, che arrancate in fila. Allora tutto cambia. Ora vi appare evidente in tutto il suo orrore l’iniquità della dittatura, non importa dove […], non importa con chi […]. Ma oggi lottiamo fianco a fianco. Si tratta di un fatto così esaltante che se questa ghinea potesse essere moltiplicata un milione di volte, un milione di ghinee sarebbe tutto per voi” (p. 140).

 

Una logica così inoppugnabile e uno humor così tagliente dovevano aver fatto saltare i nervi a parecchi fra quelli che leggevano.

Voi combattete il fascismo e il nazismo – parafraso io – che sono in Italia e in Germania ma non vi accorgete del fascismo e del nazismo che è in tutti i vostri privilegi, in tutte le vostre pompose cerimonie, in tutte le esclusioni, le repressioni, che fate a casa vostra ogni giorno?

E siccome Viginia portava a sua testimonianza fatti concreti (da anni, dal 1931 stava raccogliendo a tale scopo articoli di giornale, fotografie, ritagli di riviste, citazioni da biografie e memoriali) ecco che individua il germe del dittatore in patria in una dichiarazione qualunque sul britannicissimo Daily Telegraph del Gennaio ’36:

“Sono sicuro di esprimere l’opinione di migliaia di giovani dicendo che se fossero gli uomini a occupare i posti occupati da migliaia di giovani donne, essi sarebbero in grado di mantenere in modo onorevole quelle stesse donne. Il posto della donna è in casa, mentre oggi essa obbliga l’uomo all’ozio forzato. Sarebbe ora che il Governo facesse pressioni sui datori di lavoro perché assumessero più uomini…” (p. 79).

Ecco, commenta Virginia, in queste parole “troviamo in embrione l’insetto che riconosciamo sotto altri nomi in altri paesi. Là sta racchiuso allo stato embrionale l’essere che, quando è italiano o tedesco, chiamiamo Dittatore. […] Uno è scritto in inglese, l’altro in tedesco. Ma che differenza c’è? Non dicono la stessa cosa? Non sono l’uno e l’altro le voci di due dittatori, anche se l’uno parla la lingua inglese e l’altro la tedesca, e non ci troviamo tutti d’accordo nel ritenere che i Dittatori, quando li si incontrano all’estero, sono animali pericolosissimi, oltre che molto brutti? […] Eccone uno qui, in mezzo a noi; è ancora piccolo, arrotolato su se stesso come un bruco su una foglia, ma è qui, nel cuore dell’Inghilterra” (p. 81).

 

Ci vuole molta, spietata, lucidità per scrivere parole come queste. Ci vuole anche la rabbia, concedersi di provare quello che Luisa Muraro in Dio è violent definisce il sano “colpo di rabbia che è la degna e giusta risposta umana all’invasione e alla prepotenza” (p. 59). Ci vuole, in definitiva, un grande coraggio, anche nel senso etimologico della parola, dal latino coraticum, ci vuole molto cuore, bisogna avere il cuore di scrivere parole come queste. Di mettere in fila esempi su esempi, fatti, notizie, dichiarazioni, uno dopo l’altro a riprova del fatto che la culla della democrazia, l’evoluta Inghilterra, aveva dimostrato, in un numero infinito di occasioni, di non essere affatto immune dalla prepotenza sistematica, dalla retorica viriloide, dalla pratica della sopraffazione che tanto indignava e allarmava, a vederla dal di fuori, a vederla da lontano.

Prepotenza e sopraffazione come quando, racconta la Woolf, dopo la fondazione dei primi due colleges femminili di Newhnam e di Girton, le direttrici di quei colleges chiesero al Senato accademico se le proprie allieve, una volta laureate, potevano anteporre al loro nome e cognome il titolo di “Dott.”, proprio come facevano i loro colleghi laureati uomini, dato che la cosa le avrebbe molto aiutate a trovare lavoro, e – apriti cielo – alla votazione si presentarono in massa anche i consiglieri che non erano legati direttamente a quella Università per votare “no”, così da vincere con una schiacciante maggioranza di 1707 contro 661. Allora gli studenti, esaltati dal risultato, si diressero davanti ad uno dei colleges femminili e ne presero a calci e bastonate i cancelli di bronzo, rovinandoli.

O come quando, davanti alla Scuola Reale di Chirurgia di Edimburgo, duecento studentesse i cancelli se li videro sbattere in faccia dai loro colleghi maschi. Le chiusero fuori, e poi schiamazzarono, resero impossibili le lezioni, arrivano a portare una pecora in aula per protestare, perché quella scuola era stata fondata per gli uomini, e solo loro avevano diritto a goderne.

 

È difficile non indignarsi, anche oggi, leggendo questi episodi. È estremamente spiacevole anzi, dovrei dire, è doloroso. E sebbene la lotta per le lauree di Cambridge sia molto lontana, così come le prepotenze alla Scuola di Chirurgia, questi due fatti storici, nel momento in cui li ho letti, mi hanno dato una fitta, e subito dopo una scossa su per la colonna vertebrale. È una sensazione che mi capita spesso di trovare, quando mi ritrovo davanti a fatti di una storia lontana, che però mi riguarda. E ogni volta, tutte le volte, mi accorgo che parlano, in qualche modo, anche di me. Parlano ‘a’ me.

Mi sono chiesta, mentre leggevo, davanti a quali cancelli chiusi devo aver provato qualcosa di simile a quello che provarono le studentesse della Reale Scuola di Chirurgia.

Mi sembra di vedere le loro facce, la loro espressione amaramente stupefatta. Qualcuna prova vergogna, qualcun’altra trema di rabbia. Qualcuna ha il sorriso obliquo di chi sorride per difesa, e rassicura le altre : “non l’avranno vinta”.

Quali sono oggi i cancelli – più simbolici che pratici, evidentemente – che mi hanno lasciato fuori mentre io ero sicura che sarei entrata dentro?

Non è per niente facile rispondere a questa domanda. Si tratta di meccanismi complicati, di dinamiche così subdole e insidiose, spesso si tratta più di atmosfere che di situazioni precise. È talmente tanta la libertà che abbiamo raggiunto – almeno su un piano del discorso enunciato – che è diventato così difficile riconoscere e isolare le situazioni in cui non siamo libere. È un terreno scivoloso, e poi c’è sempre qualcuno pronto a rispondermi: “Fai un confronto con le tue antenate, anche solo di 40-50 anni fa. Non ti sembra di aver fatto incredibili passi avanti? Non ti sembra che sia tutto superato?”.

Agli occhi di chi fa queste obiezioni un testo come questo della Woolf potrebbe apparire datato. Si limiterebbe a registrare i benefici che ha portato, le conquiste che ha ispirato. Ma per il resto… le donne, la guerra, il fascismo? Pratica archiviata.

Invece devo dire che io, se fossi nella condizione di poter inviare la mia lettera personale a Virginia Woolf, e se non temessi di peccare di presunzione, la comincerei proprio con l’intestazione di Constance Cheke, “Dear Fellow Outsider”. E poi, scriverei la stessa frase che le scrisse tale Geraldine Ostle, segretaria, nel 1938: “Nessuno è riuscito ad esprimere le nostre difficoltà nell’affrontare la vita meglio di Lei”.

Dico questo ben consapevole del fatto che, pur usando la stessa frase di Geraldine, le mie difficoltà e la mia vita sono completamente diverse dalle sue. Eppure, anche simili. Molte cose sono cambiate, qualcosa invece ha solo mutato aspetto, qualcos’altro si perpetua, identico, qualcosa si è aggiunto.

Quello che è certo è che Le Tre Ghinee continua a parlare, a interrogare, a suggerire, a provocare, a muovere.

E che il suo tesoro, il tesoro della differenza, è un tesoro anche per me. Un vivo richiamo, un pungolo insistente, una fatica, a volte, ingrata, una necessità incontestabile.

Credo che anche oggi valga la pena, eccome, di domandarsi: ho voglia di unirmi al corteo degli uomini? E a quali condizioni dovrei unirmi ad esso? E poi, dove mi condurrebbe?

Virginia Woolf rifiuta di unirsi all’associazione dell’avvocato “perché così facendo annegheremo la nostra identità nella vostra; entreremo, riproducendoli e rendendoli ancora più profondi, dentro i vecchi slabbrati solchi della società […] Cancelleremmo la visione che la nostra esperienza ci ha aiutate a intravedere” (p. 143). Mentre invece, scrive in un’altra pagina la Woolf, è proprio “da quella differenza che può venirvi l’aiuto, se aiutarvi possiamo, per difendere la libertà, per prevenire la guerra. Ma se firmiamo il modulo che ci impegna a diventare membri attivi della Sua associazione, sarebbe come perdere quella differenza e quindi sacrificare la possibilità di aiutarvi” (p. 141).

 

Mi sembra che quasi tutto, oggi, concorra a volermi far perdere la mia differenza. Che si parli sempre più frequentemente solo in termini di uguaglianza. Spesso le mie coetanee, ma ancor più le più giovani, universitarie o addirittura liceali, fanno riferimento in maniera del tutto naturale, direi distrattamente naturale, al fatto che non ci sono più differenze tra loro e il sesso maschile.

Non dimenticherò mai le interviste fatte l’anno scorso a un campione casuale di studenti e studentesse de La Sapienza per un inchiesta promossa dal “Laboratorio di studi femministi Anna Rita Simeone – Sguardi sulle differenze”, che è interno alla facoltà di Lettere e Filosofia, proprio sul termine “femminista”. Quasi nessuna ragazza si sentiva di dichiararsi tale. Molte rispondevano che era assolutamente anacronistico. Ma la cosa che più mi colpì è che si evidenziava quasi mai la benché minima differenza nelle risposte delle ragazze e dei ragazzi: gli studenti di entrambi i sessi ripetevano la stessa formula, quasi fosse imparata a memoria (cito testualmente): “siamo tutti uguali; ormai non c’è più bisogno del femminismo; oggi le differenze sono state appianate”.

Io e le tre colleghe responsabili di questa inchiesta tornammo a casa con un senso di sconforto e di prostrazione profondissime.

Che ingenue, qualcuno commenterà. Ma come, nel nostro laboratorio di pensiero e di scambio non ci eravamo accorte che, qualche aula più in là, qualche metro distante, sulla stessa scalinata su cui salivamo e scendevamo, le opinioni più comuni erano queste? C’era da rimanere così stupite?

 

Non era che non mi aspettassi quelle risposte. Mi era capitato così tante volte di sentire affermazioni di quel tipo. Ma ascoltarle a viva voce, una dopo l’altra, consecutivamente, mi aveva spossata. Continuai a rimuginare. Era stata una giornata sfortunata? Non avevamo incontrato nessuna che volesse, anche in semplicità, mettere in parola il suo essere “diversa da”? Forse avevano ragione loro, forse noi con quei questionari inopportuni, da privilegiate, ci ostinavamo a porci un falso problema. Ma no, no, mi rispondevo, rivoltandomi un po’ nella rabbia, un po’ nell’incapacità, un po’ nel terrore di avere davvero assistito ad un reiterato annegamento: l’annegamento di un’identità nell’altra, il collasso delle differenze, il trionfo della “differenza non saputa”, quella che si può solo subire e non si può pensare.

Siamo dunque condannate all’inefficacia, davanti alla normalizzazione, allo sdoganamento, ingannevole, di tutte le libertà, davanti all’“illusione della simmetria” che ha preso il sopravvento?

 

Il potere che livella, che appiattisce, che svuota dall’interno le istanze rivoluzionarie succhiandone l’energia vitale e risputandone il baccello, come se fosse integro, ha tutto da guadagnare dall’indifferenziato, lo sappiamo bene.

È lo stesso potere che spesso ci fa sentire necessarie, che ci consulta e vuole il nostro contributo di donne quando serve, e che ci ignora completamente quando non serve; lo stesso che molte volte utilizza le candidature femminili come fiore all’occhiello; lo stesso che dunque fagocita e rende inoffensivo l’altro sguardo, quello da cui potrebbe essere arricchito ma che sceglie di ignorare e anzi, se possibile, di includere per disinnescare.

Ma non voglio, ora, parlare ancora del Potere, il potere che ruba tutti i desideri, facendo finta di offrircene un ventaglio infinito; il potere del giogo della tristitia di spinoziana memoria, che deprime, disgrega, rende prigionieri e impotenti; il potere dell’indifferenziato, che nella promessa dell’uguaglianza ha la pretesa di annullare tutte le differenze, anche quelle irriducibili e che, proprio perché irriducibili, mentre vengono sottratte al piano della consapevolezza, continuano ad agire sotterraneamente senza però poter essere pensate, senza avere più parole per essere espresse, né possibilità di essere sapute.

 

Vorrei parlare adesso di quello che io sento di potere fare. Di quello che un libro come Le Tre Ghinee mi dà le ragioni e gli incentivi e il coraticum, il coraggio del cuore, di voler fare.

Credo che ancora oggi abbia senso parlare di una Society of Outsiders. Non potrebbe e non dovrebbe, certo, essere l’organizzazione segreta di estranee alla guerra, alle armi, di indifferenti al combattimento, di senza patria – perché in quanto donne la loro patria è il mondo intero – di cui parlava la Woolf. Ma è giusto e necessario e fa bene pensare che le donne, alcune donne, anche molto giovani, consapevoli della propria diversità, vogliano e possano “approfittare della differenza”, per usare un’indimenticabile espressione di Carla Lonzi.

Per parte mia, io vorrei poter approfittare della storia differente di coloro che sono venute prima di me, vorrei poter approfittare delle mie antenate, così come della mia esperienza altra, dell’altro sguardo… anche, dunque, di tutti gli svantaggi che la Storia ha comportato nel tempo, molti dei quali sono stati superati, mentre altri sono rimasti, e altri ancora sono mutati, ma di cui posso approfittare volgendoli in positivo, non in maniera consolatoria, ma come un autentico slancio di indipendenza.

 

Dico vorrei perché non so se sarò in grado di fare tutto questo. Tradirsi è dietro l’angolo, bisogna saperlo. È così faticoso essere fedeli a se stesse, così tante donne mi è parso di vedere mentre si mettevano in fila per essere ammesse al corteo degli uomini, che un giorno per stanchezza, per economia, per sfiducia, potrebbe capitare anche me. Spero in quel caso ci sia una voce così amica da poter essere sufficientemente spietata nel ricordarmi qual è il prezzo da pagare, quali sono le condizioni a cui stare, quali sono le mancanze del potere con cui io, dando la mia adesione senza portarmi dietro la mia differenza, colluderei.

A volte ho la sensazione che non siamo abbastanza amiche da essere spietate con quelle donne che ci pare scendano a compromessi…e che avrebbero bisogno, parlo soprattutto di quelle che scelgono di essere dentro le istituzioni, di un sostegno autentico, di sentire dietro di sé la pressione e l’energia della Società delle Outsiders.

 

Mentre iniziavo a preparare questo intervento e sfogliavo alcune pagine sulla Woolf mi ha fatto sorridere ritrovare una definizione che suo marito, Leonard, aveva scritto nella sua biografia riguardo al rapporto di Virginia con la politica: aveva scritto “Virginia era l’animale meno politico mai comparso sulla terra da quando Aristotele aveva inventato la definizione”.

Certo, lui si riferiva al fatto che Virginia non era, come lui, così politicamente impegnata, coinvolta, competente. Faceva spesso confusione tra uno schieramento e un altro. Non era un’esperta, come lui sentiva di essere e come lei stessa riconosceva lui fosse. Eppure… l’animale meno politico mai comparso sulla Terra sta all’origine della politica delle donne.

C’è un segreto in quel meno che forse Leonard non coglieva. Un meno che proprio nella sua inadeguatezza, nel suo non fare parte e non mettersi in fila per fare parte di quel “politico” che era sempre esistito, fin dai tempi di Aristotele, trova le ragioni e le esperienze per crearne uno nuovo. Per “non ripetere – dice la Woolf dice nella conclusione di Tre Ghinee – le vostre parole e i vostri metodi, ma trovare nuove parole e inventare nuovi metodi”.

 

Vado a concludere.

Essere fuori dal cancello può essere utile per guardare meglio. Le cose si vedono in una prospettiva diversa. Essere out-siders, rimanere fuori dal centro, mantenersi eccentriche, permette una visione binoculare che chi è dentro non sempre riesce ad avere.

Accettare di essere incongruenti, difendere la propria differenza senza cedere all’inclusione nell’indifferenziato, comporta una non indifferente fatica.

Significa riconoscere di essere straniere, e volerlo restare.

Ma come scrive Hannah Arendt, nella sua biografia di Rahel Vernagen, una donna, e un’ebrea, “Fremdsein ist gut” (p. 85):

“‘Essere stranieri’ fa bene; immergersi, […] e sperimentare, tentare quello che procura piacere; non lasciarsi aggredire, essere senza pretese, perdersi in tutte le cose belle del mondo. Di tante cose ci si può innamorare; di un bel vaso, del bel tempo, di persone belle. Tutte le cose belle hanno il loro potere, ogni cosa del mondo ha un suo volto e può essere bella”.

Per tutto questo e per molto altro, cara compagna outsider, essere fuori, non essere a casa, certe volte, oltre che una cosa faticosa e necessaria, mi pare anche una cosa bella.

 

Sara De Simone si è laureata in Filologia romanza all’Università La Sapienza di Roma. Attualmente è dottoranda in Letterature comparate alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove si occupa, tra l’altro, della narrativa modernista di Virginia Woolf, Katherine Mansfield e Clarice Lispector. Ha fatto parte dell’esperienza di Se non ora quando?, confluendo poi nel gruppo Snoq Factory. Partecipa da anni al Laboratorio di studi femministi Anna Rita Simeone – Sguardi sulle differenze con cui ha realizzato diverse video-inchieste (Di questa donna e delle altre, Chi dice donna dice danno, La parola femminista) e curato alcuni numeri di DWF.

 

(www.libreriadelledonne.it, 6 novembre 2016)

 

 

 

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