18 Febbraio 2021
il manifesto

Sarah Smarsh e l’America ferita dei bianchi poveri

di Guido Caldiron


Parla lautrice di «Heartland», da oggi in libreria per Black Coffee. Un memoir che racconta tre generazioni di agricoltori del Kansas tra crisi economica e sconfitte domestiche. «Quando privilegio razziale e svantaggio economico vanno insieme, il problema si pone in termini di classe. Qualcosa che nel mio Paese si è sempre cercato di negare o mettere a tacere»


«Il sogno americano sembra più un fantasma che perseguita i nostri pensieri piuttosto che un contratto sacro che vale la pena firmare per mettere in cassaforte il futuro». Non è facile scoprire quanto rapidamente la promessa di felicità sancita fin dalla Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti possa tradursi in un bluff, in una vita difficile e priva di qualunque traccia di miglioramento anche solo all’orizzonte. Ed è ancora meno facile se a fare questa scoperta è una ragazzina che cresce in una famiglia di agricoltori nel bel mezzo delle campagne del Kansas.

L’essere bianchi non basta, come la retorica razziale sulla quale si è costruito il Paese ha invece sempre affermato, perché nell’equazione della propria biografia essere poveri ha un ruolo di gran lunga più importante. Oltre il «mito» di una working class che costruisce le proprie fortune grazie all’abnegazione e al duro lavoro, emergono le frontiere di classe, le limitazioni economiche, le tante derive personali che in una società dove la sconfitta e la miseria sono spesso vissute come colpe lasciano ferite profonde e incancellabili: dalle violenze domestiche agli abusi, dall’alcolismo alla dipendenza da medicinali e da ogni sorta di oppiacei.

Con un coraggio e una forza eccezionali, è questo che ha scelto di raccontare Sarah Smarsh in Heartland (Black Coffee pp. 284, euro 18, traduzione di Federica Principi) un memoir dolente e straordinario che ha la forza dell’inchiesta e il timbro del romanzo dove si descrivono le vicende di una famiglia di agricoltori di origine tedesca del Midwest, attraverso diverse generazioni e un sguardo particolarmente affettuoso rivolto a nonne, madri e figlie. Quarantuno anni, giornalista economica affermata, Smarsh descrive il mondo nel quale è cresciuta e dal quale si è almeno in parte allontanata, ma lo fa con il calore che si riserva a ciò che si ama e senza perdere né la speranza né la tenerezza.

La vicenda che racconta è segnata profondamente dalla paura, per sé come per i propri cari, a cominciare dai suoi genitori che ha sempre sentito di dover in qualche modo proteggere. È questo il sentimento che ha dominato la sua infanzia più della difficoltà di immaginare un futuro? 
Gli aspetti pericolosi della vita della mia famiglia – i pericoli fisici insiti nel lavoro nei campi, quelli psicologici frutto dei modelli costanti di abuso che abbiamo ereditato di generazione in generazione, quelli sociali derivanti dal fatto di essere troppo poveri per accedere anche soltanto all’assistenza sanitaria – erano così «normali» per me che non percepivo le altre paure che provano di solito i bambini. Vivevo piuttosto immersa in uno stato costante di vigilanza per proteggere sia me stessa che il resto della mia famiglia.

Le pianure del Kansas in cui è cresciuta sono considerate «il granaio dAmerica», una zona presentata come «il cuore» del Paese e celebrata con grande retorica. Eppure la storia di molte famiglie come la sua racconta di un totale abbandono da parte delle istituzioni e del potere economico che ha condotto a un impoverimento crescente e a decine di milioni di poveri. Come è stato possibile? 
Per metà del XX secolo la politica federale degli Stati Uniti è stata intenzionalmente progettata per spremere le piccole fattorie e favorire l’agricoltura industriale basata sulle grandi aziende. Di conseguenza, già nel corso degli anni Ottanta, quando ero bambina, molte aree rurali come quella in cui vivevo venivano definite «morenti», mentre la gente di campagna fuggiva nelle città per cercare di sopravvivere. E non si tratta di un caso isolato: le leggi adottate via via hanno creato intenzionalmente uno svantaggio per gli afroamericani, le donne e altri gruppi minoritari. Del resto, per un Paese così ricco avere un numero di cittadini in difficoltà talmente elevato non è certo un caso. È tutto tranne che una fatalità.

È comune pensare alla povertà e allemarginazione nelle grandi metropoli, allo sfruttamento dei migranti ispanici o al razzismo nei confronti degli afroamericani, ma cosa significa essere bianchi e poveri negli Stati Uniti? 
La storia del mio Paese è intrisa di riferimenti alla supremazia bianca, il che significa che i neri hanno statisticamente maggiori probabilità di essere poveri rispetto ai bianchi. Tuttavia, in virtù delle percentuali delle diverse comunità che formano la popolazione totale, è anche vero che ci sono più bianchi poveri di qualsiasi altra razza. E in effetti abbiamo difficoltà a discuterne pubblicamente perché si tratta di qualcosa che smentisce il modo in cui il Paese è abituato a pensarsi. Significa infatti che privilegio razziale e svantaggio economico – e, nel caso dei poveri bianchi delle campagne, anche su base geografica – possono convivere. Il che equivale implicitamente porre il problema in termini di classe, qualcosa che nel Paese si è sempre cercato di negare o mettere a tacere.

In un celebre saggio di alcuni anni fa «Whats the Matter with Kansas?» (2004) il giornalista e politologo Thomas Frank parlava proprio dello Stato in cui è nata per dimostrare come i bianchi poveri siano stati spinti a lungo a votare contro i propri interessi dalla propaganda della destra. È un tema tornato dattualità con Trump. Lei come vede le cose? 
Non mi piace l’espressione secondo cui le persone «votano contro i propri interessi», come conclude Frank, perché implica che si tratti di gente un po’ stupida. Ciò nonostante è assolutamente vero che la propaganda della destra ha preso di mira per decenni, e con successo, ambienti e regioni specifiche del Paese, come le chiese evangeliche o le aree rurali, concentrandosi su questioni controverse come l’aborto che hanno orientato il voto più dei temi legati alla vita quotidiana di queste persone. E si tratta di una tendenza che non ha fatto che rafforzarsi negli ultimi anni anche attraverso i social media.

Nel suo libro racconta che da ragazza non aveva neppure mai sentito nominare la Carhartt il famoso brand che si ispira allabbigliamento da lavoro e dei cowboy, ndr -. Quanto è distante la costruzione «pop» e stereotipata dellimmagine del lavoratore bianco dalla realtà concreta di chi vive e lavora nei campi? 
Secondo questa immagine costruita a tavolino, una famiglia di contadini bianchi come la mia si sposta su grandi pickup di marche americane e indossa stivali e cappelli da cowboy. Nella realtà, qualche volta è così, molte altre no. Così a me è successo di seguire gli animali o lavorare nei campi con indosso le scarpe da tennis comprate da WalMart o di guidare per anni una piccola macchina giapponese a gas per risparmiare sui lunghi tragitti che ero costretta a fare per raggiungere la scuola o il supermercato più vicino. Allo stesso modo, anche l’immagine politica di chi vive nelle campagne che viene offerta d’abitudine è troppo semplicistica. Conosco molti bianchi della classe operaia provenienti da ambienti agricoli, inclusa la mia famiglia, che disprezzano Trump e difendono con forza le idee progressiste. In passato a casa mia si è votato per Carter come per Reagan.

Lei viene da una famiglia nella quale ci sono almeno tre generazioni di madri adolescenti, le cui vite sono state decise da queste gravidanze in giovane età. Un contesto che è allorigine della sua scelta di non avere figli da giovane. Nelle zone rurali sono le donne, per quanto coraggio e determinazione possiedano, a pagare il prezzo maggiore? 
Senza dubbio. Per la mia esperienza, in questo ambiente essere donne e essere povere ha sempre rappresentato un doppio svantaggio. E lo è ancor di più per chi è madre già a 15 o 16 anni. Per le risorse di tempo e denaro che i bambini richiedono. Sono sfide che si intrecciano e rendono la vita ancor più precaria di quanto già non lo sia in queste famiglie: essere poveri rende la maternità più difficile e essere madre rende più difficile la povertà.

Un altro suo libro è dedicato a Dolly Parton, cresciuta in una fattoria di agricoltori poveri del Tennessee e che ha cantato le vite difficili di molte donne bianche della classe lavoratrice. Ai suoi occhi Parton sembra incarnare un volto inedito del femminismo. Vale a dire? 
Sono stata allevata da donne che, proprio come Dolly Parton sono intelligenti e forti ma non hanno ricevuto molta educazione formale. Spesso la nostra discussione sul femminismo è accademica ed esclusiva, incentrata sulle donne istruite e attiviste. Ma negli Stati Uniti le strutture economiche sono così soffocanti che le donne della mia famiglia non potrebbero permettersi di partecipare ad una manifestazione anche se lo volessero. Devono lavorare o non hanno assistenza per i loro figli, qualcuno che le possa sostituire. Eppure, quelle donne della working class sono in qualche modo delle femministe esemplari per il modo in cui vivono le loro vite, lottando ogni giorno per la propria indipendenza e rivendicando le proprie scelte. Allo stesso modo, Dolly Parton non fa dichiarazioni politiche esplicite, ma incarna fino in fondo i principi del femminismo imponendo il proprio punto di vista, la propria autonomia e l’autorevolezza del proprio percorso.


(il manifesto, 18 febbraio 2021)

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