3 Marzo 2012
D la Repubblica

Scrittrici Cult Jeanette Winterson

Mara Accettura

Jeanette Winterson è raggiante. A un certo punto dell’intervista dice “non sapevo che l’amore potesse essere così affidabile, come il sole che sorge tutte le mattine”. Una frase che potrebbe essere letta come un terribile cliché detta da chiunque altro. È certo che si riferisce a Susie Orbach, la famosa psicanalista freudiana (autrice di Corpi e terapeuta di Lady Di), che dopo un matrimonio trentennale, nel 2009 si è fidanzata con lei. Cito questo fatto perché la Orbach è stata una figura chiave in questa ultima biografia della Winterson Perché essere felice quando puoi essere normale? (in uscita per Mondadori il 6 marzo). L’ha infatti aiutata nella ricerca della madre naturale. Jeanette Winterson è stata infatti adottata da una famiglia Pentecostale nel Nord dell’Inghilterra. La madre, una “depressa flamboyant” tiene una pistola nel cassetto degli strofinacci e i proiettili in una scatola di lucido per mobili. Jeanette viene cresciuta come una missionaria: l’unico libro permesso a casa è la Bibbia e quando Mrs Winterson scopre che nasconde Donne in amore sotto il materasso insieme a centinaia di altri titoli, getta tutto dalla finestra e fa un falò in cortile. A 16 anni però la ragazza dai capelli a filo spinato si innamora di una donna. “Sono felice”, dice. La madre le fa la domanda che dà il titolo alla biografia, poi la fa esorcizzare. Jeanette fugge di casa, dorme per un anno in macchina, entra a Oxford. Ho amato moltissimo questo libro, che è il gemello ombra di Non ci sono solo le arance. Quella semiautobiografia in chiave umoristica, poi diventata una fortunata serie tv, si fermava all’Università. Questa, anche se non mancano affatto le parti comiche, è una discesa agli inferi e ritorno. Oltre all’infanzia, parla di quella notte oscura dell’anima in cui la Winterson si lascia con la regista Deborah Warner e tenta il suicidio, della morte del padre e del ritrovamento dei documenti di adozione, infine dell’innamoramento per la Orbach e dell’incontro con la “vera” madre. Perché essere felice però va aldilà della biografia. Soprattutto è un libro sull’amore, la mancanza, la perdita, il desiderio, il cercare di appartenere e la ricerca di identità. “Non volevo scrivere un sequel”, dice l’autrice, che incontriamo in una deliziosa casa georgiana su Fournier street, Londra, che sta ristrutturando con un’amica. “Sono tornata al mio passato in virtù di quei documenti scovati in un baule, così ho iniziato a scrivere per me e solo per me, la mia storia, senza pensare che sarebbe diventata un libro. È stata la mia agente a consigliarmi di metter insieme tutto, e a metà mi sono accorta che dietro gli appunti c’era una incredibile forza. Speravo che, sebbene molto personali, potessero parlare a molta gente. Ho un’idea molto morale dell’arte. Se non ci cambia la vita a che serve? Ha funzionato: sono stata inondata da lettere ed email da chiunque, donne e uomini di tutte le età”. Non è una lettura facile, ma una volta dentro è impossibile staccarsi: la Winterson ha una grandissima capacità di mettersi a nudo, esplorare senza pudore il mondo delle emozioni, anche le più oscure. Come quando, al culmine dell’esaurimento nervoso, comincia a sedersi un’ora al giorno con i suoi mostri (“la creatura viscida”) e a dialogarci. L’autoanalisi è stata terapeutica. “Tutto quello che è successo in quei due anni è stato una questione di vita o di morte: non c’è dubbio che le chance erano 50/50. Quando arrivi al limite della vita hai davanti un muro e ti sembra che non ce la farai mai ad attraversarlo perché è completamente solido. In quel periodo sognavo spesso di essere in una di quelle terribili stanze che diventano sempre più piccole, e sapevo che per sopravvivere dovevano esplodere i muri. Cosa che è successa e che mi ha rivelato dall’altra parte gioia e un ritorno di amore per la vita. Ora ho davanti altri 25 anni, gli stessi intercorsi tra Le arance e Perché essere felice. E voglio che siano belli. Voglio indietro la mia vita. Non sprecarla più”. I suoi genitori adottivi sono stati crudeli. La lasciavano fuori casa tutta la notte, sua madre la puniva con lunghi silenzi, mancanza di cibo, botte, il tutto condito da un’opprimente religione. È riuscita a perdonarli? “Sì. Sono stata capace di perdonare mio padre da vivo, il che è stato molto bello e dolce anche perché se non fosse successo non sarei mai tornata a casa sua quando è morto e non avrei mai trovato quei documenti”. E sua madre? A proposito perché a volte la chiama Mrs Winterson? “Non so. Sceglievo a seconda di come suonava nella frase. Perché non c’è dubbio che per me lei fosse questo tremendo archetipo, una figura più grande della vita, che ho amato, e assolutamente non una madre. Un mostro, ma il “mio” mostro. Ora nella mia testa è Mrs Winterson perché quel nome sembra più consono alla sua natura. Non sapeva essere madre e probabilmente io non sapevo essere figlia. Sa quell’idea di Winnicott che “il bambino fa la madre” e che non esiste una madre senza un bambino? Credo ci sia una profonda verità perché è la relazione che permette a entrambi di essere ciò che sono. Noi non avevamo idea di come costruirla e siamo rimaste intrappolate in questa strana fiaba, in cui lei era un mostro e io cercavo sempre di essere più furba di lei o di aggirarla per arrivare al tesoro che lei nascondeva così bene. Forse questo era un meccanismo per tenerla a distanza ma che su di me ha avuto grandi conseguenze perché mi ci è voluto molto tempo per imparare ad amare e a essere vulnerabile”. Cioè? “Quando nel libro dico che l’amore può essere prevedibile come il sole che sorge tutte le mattine, è quello che sento ora, perché ho sempre creduto che l’amore fosse per natura imprevedibile. È una grande sorpresa. Mi succede la stessa cosa con i regali: non so accettarli, ho il panico. Susie mi ha appena regalato questa nuova Mini sportiva tutta nera con i sedili in pelle… È una bellissima macchina ma ho sentito l’urgenza di trasferire i soldi sul suo conto e lei li ha ritrasferiti sul mio, con io che chiedevo “ma perché?” e lei “perché ti amo e a te piacciono le macchine” e la faccenda è diventata il simbolo della mia incapacità di ricevere. Ridicolo no?”. Comprensibile. E la sua famosa rabbia, che fine ha fatto? Lei racconta che da piccola alzava le mani su compagni di scuola e insegnanti. “Sì, ahahahah! Alzavo le mani facilmente e anche adesso quando mi arrabbio non sono un bello spettacolo. Posso esplodere, però non tengo il muso e quando è finita è finita. Noi dell’Inghilterra del nord siamo così. L’altro giorno un vicino di Susie le ha ammaccato la macchina e sono diventata matta. “Cosa hai fatto fottuto cretino?” ho urlato e ho pensato di ammazzarlo. E naturalmente la mossa successiva per lui è stata andare dalla polizia e poi chiamare il Daily Mail per dire che “Questa donna di un metro e mezzo mi ha terrorizzato!”. Ahahah!”. Molto divertente! Ma per tornare a Mrs Winterson, cosa ne pensa ora? “Ho cercato tutta la vita di capirla, dissezionarla, proiettarla anche attraverso i ruoli che le ho affidato nei miei libri cercando di provare compassione. Credo di esserci arrivata perché sono politicamente più astuta. Le donne di quella generazione erano assolutamente fottute. Dopo la guerra, momento in cui ebbero responsabilità e potere enormi, tornarono a casa a occuparsi di padri e mariti e il mondo si chiuse completamente per loro. Mia madre non incontrò il femminismo che avrebbe potuto mostrarle una via d’uscita”. Incontrò la religione. “Il che va bene ma non porta una donna lontano. A quella cultura si è sommato il thatcherismo reaganiano, un modello pernicioso per chi ci è cresciuto dentro. Perché da una parte il messaggio era puoi fare della tua vita quello che vuoi, perfetto, e dall’altra era: i problemi sono privati quindi li devi risolvere da solo, la società non è responsabile. Ma come si fa a dire che i problemi sono privati quando non hai nulla, nemmeno un’opportunità? Così c’è voluto molto tempo per inserire la vita dei miei in un contesto in cui le condizioni di partenza sono contro di te”. Lei parla spesso di speranza, seconda chance. Le è rimasto qualcosa di quell’educazione religiosa. “Sono sicura di sì. Credo che la religione organizzata sia qualcosa di negativo, eppure il linguaggio simbolico della religione come mezzo per comprendere noi stessi e l’anima è importante. Parla del nostro bisogno di sapere che c’è qualcosa di più del corpo e della mente. E poi c’è l’idea di riscattare il tempo, freudiana anche se Freud ci è arrivato molto dopo, che significa che puoi tornare in quel posto perduto, danneggiato, portarlo nel presente, pulirlo, guarirlo e poi andare avanti. È un profondo concetto religioso, è redenzione. Significa che qualsiasi cosa succeda, per quanto terribile, non è la parola definitiva. C’è un’altra chance. Perdonare e essere perdonati sono essenziali per sopravvivere. Lo trovo commovente”. Si sente ancora ferita? “Tutti i bambini adottati soffrono di scarsa autostima. Perché se da una parte ti senti superman, che può fare tutto perché non appartiene a niente e nessuno, dall’altra ti senti inadeguato e inferiore. E quella ferita non scompare, non deve, ma la cosa importante è disinfettarla in modo che quando sanguina non infetti l’intero organismo. Le ferite sono dei marchi e dei doni. Perché solo da quel posto puoi accettare e comprendere la tua inadeguatezza, i tuoi fallimenti e quelli degli altri. Capisci che possiamo farci del male a vicenda, è umano. Così ho perdonato l’abbandono della mia madre naturale”. È mai stata in analisi? “Per un po’. Ma c’era questa parte pazza dentro di me che la rifiutava e alla fine ho fatto da sola. È stato difficile perché spesso ci proteggiamo dal dolore attraverso estremi come la rabbia o l’apatia. Io mi sono seduta e ho ascoltato quello che sentivo, senza scappare. Ho imparato che se non riconosci quello che senti non puoi sentire nemmeno quello che provano gli altri. Mi succedeva con Deborah e alla fine io ero sempre arrabbiata e lei sempre calma. Con Susie è diverso: è la persona più emotivamente onesta che conosco. Non puoi fare giochi con lei. Secondo lei non avrei dovuto “fare da sola”, è pericoloso, ma avevo paura che se avessi rivelato la mia follia mi avrebbero ricoverato e dato farmaci e io non volevo diventare un caso clinico anche a rischio di morire, il che è segno di follia. Sebbene sia controverso credo che la mente tenda all’omeostasi, voglia guarire”. Qualche mese fa su questo giornale abbiamo pubblicato un suo racconto sull’amore in cui diceva che abbiamo perso la capacità di esprimerlo. “Credo che il linguaggio ci permetta di sentire di più. Più piccolo è il linguaggio più piccola è la capacità di sentire in modo complesso: ci restringiamo anche noi. Scopriamo la nostra profondità attraverso il linguaggio, ecco perché è importante dare ai bambini un linguaggio reale: è una fantastica cassetta degli attrezzi per farli crescere. Ed è importante affrontare testi complessi perché il cervello, di cui non sappiamo molto, ha bisogno della sfida del linguaggio per esprimere l’enorme portata di cosa significhi essere umani”. È tipico di questa epoca? “Credo di sì. Non sono nostalgica, non voglio che diventiamo bidimensionali, che l’amore diventi un’espressione da soap opera, canzoni pop, tv. Mi piace pensare che l’amore sia vasto, che sia “ciò che muove il sole e l’altre stelle”. La capacità di esprimere un amore così vasto ci permette anche di provarlo”. È vero che a 20 anni faceva sesso in cambio di pentole? “Sì. Ahahah! Be’ non proprio. C’era questo bar per sole donne The Gateways a Chelsea, frequentato da signore che non volevano rivelare la loro sessualità: vivevano nei sobborgi con marito e figli e venivano a Londra per shopping. Ci andavo a letto, in quel periodo andavo a letto con chiunque, cercavo sesso. E loro volevamo farmi regali, cose che sulla carta di credito non insospettissero i mariti, così mi regalavano pentole da Harrods. Finii con una batteria intera di Le Creuset! Un giornale pubblicò il gossip. Se fossi stato Henry Miller in Tropico del Cancro non avrebbe fatto notizia”. Lei dice che la letteratura non è un posto per nascondersi ma per trovare. “Nell’incontro con un libro, un film, un quadro riusciamo ad arrivare al centro di noi stessi come con nessun’altra cosa. Un libro meraviglioso sconvolge le abitudini mentali, getta tutto all’aria in modo che non ci adagiamo, che ci sia sempre un confronto e una sfida a qualche livello. I libri importanti tornano in vari punti della vita per stimolarci come amici invisibili che ci bussano sulla spalla facendoci delle domande. Vivere non dovrebbe mai essere troppo comodo, almeno per me. Per questo è importante avere una mente ben fornita come una dispensa. La gente dice che la letteratura è un lusso ma non credo sia vero e se è vero allora anche essere umani è un lusso”. Oggi com’è il suo rapporto con Ann, la madre che la diede in adozione? “Non so ancora cosa provare per lei. Vorrebbe includermi nella famiglia ma non funziona. Siamo cordiali, non vicine. Non ho rimpianti e neanche lei”.

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