di Vita Cosentino
È stata per me una fonte di sorpresa e gioia leggere Sessantotto, due generazioni di Francesca Socrate (Laterza euro 22,00). Mi sono ritrovata in pieno in quelle pagine, con le mie scelte di allora e i miei azzardi, con la differenza sostanziale di approccio al movimento che sentivo per esempio con mia sorella maggiore o con il suo compagno, di solo tre anni più grandi di me.
Ma andiamo con ordine.
L’autrice prende in considerazione, in Italia, il ’68 breve, quello che si riduce a un anno compreso tra l’autunno del ’67 e l’autunno successivo, ma non per farne la storia politica delle idee, delle azioni, dei passaggi. Lascia da parte anche l’esame delle conseguenze e dei lasciti, per concentrarsi sul piano concreto della sua realtà sociale e antropologica: ragazzi e ragazze con il loro passato, la cultura che avevano alle spalle e il mondo mentale che incarnavano. La stessa autrice fa parte di quella storia e lo dichiara all’inizio: «studentessa universitaria al primo anno e nel movimento dalla prima assemblea». Nel testo si avverte una negoziazione continua tra il suo punto di vista di storica e quello di una del ’68. Per lei l’unica possibilità di affrontare la questione è «l’esserne consapevole e che ne sia consapevole anche chi legge.» (XVI)
La ricerca di Francesca Socrate è basata su interviste raccolte nell’arco di quasi un decennio a uomini e donne che hanno partecipato al movimento nelle varie sedi universitarie italiane. Tutto il materiale raccolto è stato poi analizzato tramite la linguistica computazionale, che usa l’analisi automatica dei testi. Ammetto una mia iniziale diffidenza per la scelta di inserire automatismi nella sua ricerca. Ultimamente sono molto critica al riguardo, considerando, per esempio l’invasione degli algoritmi in ogni aspetto della nostra vita. In questo caso mi sono dovuta ricredere perché ha usato gli strumenti informatici con discernimento, per individuare piste di ricerca e non per determinare risultati. Come sostiene l’autrice, su un corpus di 63 interviste questo trattamento permette di evidenziare elementi linguistici spesso inaspettati che indirizzano la ricerca su strade diverse da quelle previste. Porta come esempio il fatto che nelle parole che hanno usato le donne ricorrono avrei e sarei quasi sempre come ausiliari di condizionali passati: “Se non avessi fatto il ’68 avrei… sarei…”. L’autrice è partita da qui, per chiedersi che significato avesse questo condizionale in prima persona nel racconto di ciascuna. E in due interviste in particolare, quelle di Maria Frieri (Torino) e Maria Sofia Cutolo (Napoli) con quella formulazione linguistica le intervistate delineano fin nei dettagli il percorso di vita prefissato – di mogli e di madri, possibilmente con un lavoro compatibile – che hanno schivato scegliendo il ’68.
La lettura del libro mi ha così intrigata perché sono due le differenze che la Socrate prende in esame e sviscera: quella generazionale e quella dell’essere donna. Ed entrambe mi riguardano.
La sua prima affermazione importante è che nel ’68 confluirono due generazioni sostanzialmente diverse per cultura politica, per atteggiamenti, per visione del mondo, sebbene siano separate da uno scarto minimo di età: la generazione della guerra nata fino al ’45 e la generazione del dopoguerra – a cui io appartengo – nata fino al ’50. La prima ha potuto ancora fare esperienza delle organizzazioni giovanili dei partiti, del loro declino, delle minoranze eretiche che ne sono scaturite, del fermento intorno a riviste e a nuove riflessioni, e sarà la generazione che più esprimerà i leader del movimento. La seconda è già al di là di tutto questo in una sorta di nomadismo politico che guarda più alla piazza come spazio pubblico. Infatti a cominciare dal ’62 con la crisi dei missili a Cuba compaiono nelle piazze masse di studenti a prescindere dalle forme organizzative della politica ufficiale, per culminare poi con la protesta contro la guerra in Vietnam nel ’67. È una generazione non più disposta a riconoscere la legittimità di gerarchie fondate sulla rappresentanza, «insomma quello che si andrà definendo di lì a poco come rifiuto della delega». (p. 23) È un’esperienza di politica diretta, di politica in prima persona, quella che più segna la seconda generazione, che andrà a costituire la massa del movimento. Nel libro questa tesi è argomentata a fondo sia con ricerche storiche sulle organizzazioni giovanili dei partiti, sia con l’analisi di ampli stralci di interviste rispetto al vissuto, alla memoria delle due generazioni e alle differenze sociali che le attraversano.
Francesca Socrate nel suo lavoro dedica molto spazio alla differenza di essere donna. È un’attenzione che percorre tutto il testo e che viene messa a tema nel capitolo Mai così tante. In precedenza non si era mai vista una così grande partecipazione spontanea di ragazze e con un tale grado di adesione. Certo poche intervenivano in assemblea, poche erano dirigenti, la loro presenza era più attiva nei controcorsi, nei seminari, nelle occupazioni, nello scambio quotidiano, nella vita in comune. Nel ’68 la leadership è e rimane sostanzialmente maschile. Lo sappiamo. Si è parlato di occasione mancata di incontro con il femminismo. Si è parlato di rivolta nella rivolta (Muraro) per definire quel gesto di separazione dai maschi che è il gesto inaugurale del femminismo, cominciato proprio in una università americana nel 1966.
Lo sa bene anche l’autrice, tuttavia le interessa indagare l’aspetto esistenziale che emerge dalle interviste e che la porta ad affermare che «partecipare al ’68 per le donne è stato uno strappo, una rottura profonda che mette in pericolo l’intera impalcatura del destino sociale scritto per loro». (p. 87) Rottura e non sono infatti le parole più ricorrenti nelle interviste femminili. Non lo è in assoluto, a segnare conflitti duri con l’autorità patriarcale, più duri di quelli affrontati dai maschi. Per le ragazze di allora, me compresa, da tempo erano già in atto conflitti in famiglia per l’autonomia delle scelte, per la libertà di muoversi, di leggere, di pensare, di vestirsi a proprio modo, in una parola di esistere. Nel ’68, con la forza della dimensione collettiva trovano il modo di esprimersi radicalmente. La rottura si traduce per lo più nell’andare via di casa a volte in modo drammatico, come nel mio caso, a volte in modo più conciliante. “Non mi comandi più” detto da una figlia al padre, è la frase che meglio la esprime.
Leggendo quella frase la verità che mi si è ripresentata davanti è che io ho fatto il ’68 e sono scappata di casa senza un soldo, per sfuggire al dominio paterno e avere un’esistenza libera. Fatto quel passo, penso che per me fosse quasi inevitabile diventare in seguito femminista.
(www.libreriadelledonne.it, 5 ottobre 2018)