10 Settembre 2016
“Autogestione e politica prima”

“Sguardi stranieri sulla nostra città”. Recensione

di Laura Colombo

Alla fine del 2015 è uscito un libro agile che ha un titolo significativo, Sguardi stranieri sulla nostra città (Battei, Parma 2015). Curato da Marco Deriu, sociologo all’Università di Parma, è un viaggio nella geografia interiore di patimenti, speranze, delusioni e conquiste di chi migra da paesi lontani e approda a Parma, un’agiata cittadina del Centro-Nord. Attraverso gli occhi di chi arriva, vediamo questo angolo di mondo e possiamo ricostruire la mappa degli spazi esteriori e interiori che appartengono a chi straniero non è.

La scrittura è a più mani, Marco Deriu collabora con le volontarie dell’associazione Parma per gli Altri per elaborare il materiale raccolto dalla viva voce di donne e uomini migranti, che da tempo abitano in città. Tutte e tutti si misurano con la propria storia. Innanzi tutto con la necessità di partire dal paese d’origine, per mancanza di prospettive o per necessità di fuggire da guerre e soprusi. “Stavo lasciando un lavoro, la mia terra. Poi ho ragionato: in Senegal è dura e impossibile, in Italia è dura, ma possibile” (pag. 24). Si misurano con le conseguenze della loro partenza, quel fardello pesante fatto di bisogni e aspettative di chi resta e obbligo di farcela per chi se ne va. “Mi hanno detto di andare per proteggere la mia famiglia, per portarle aiuto. Hanno speso un sacco di soldi per farmi arrivare qua. Ci sono delle persone da noi che per mandare i figli fuori dal paese vendono anche la terra. Ma se uno ha venduto la sua terra, e qua non trova niente, non può fare nulla, e anche la sua famiglia sta male, perché non ha più nulla, è sulla strada” (pag. 28). Tutte e tutti si misurano anche con ciò che trovano una volta arrivati qui, lo straniamento dell’impatto con la nuova realtà, le perle preziose dell’accoglienza, i piccoli grandi gesti che riscaldano il cuore e danno un orientamento nell’ignoto, l’incontro con cultura e valori spesso distanti da ciò che si sente nel profondo.

È questo il punto che mostra la maggior ricchezza del libro: l’immigrazione, per il tramite delle parole di donne e uomini migranti, diventa il soggetto che parla di noi, non l’oggetto del discorso, il tema scottante su cui intervenire, e invita chi legge a una messa in discussione di verità e pregiudizi attraverso lo specchio dell’altro.

“Qui la gente ti lascia tranquillo. Nessuno ti guarda, puoi fare quello che vuoi, basta che non dai fastidio a nessuno. E questa è una cosa bellissima. Sei più libero” (pag. 11 e 104). L’invisibilità è per Hamed patimento e insieme fonte di piacere, perché, come sottolinea Faisal, in Africa “non sei mai solo, neppure di notte e a volte si sente il bisogno di vivere momenti di riflessione” (pag. 94). Come in uno specchio, qui possiamo scorgere la nostra indifferenza, la diffidenza, la paura del contatto, il senso del possesso. “Qui devi star sicuro, devi star ricco, devi fare l’assicurazione. Devi mettere anche una pistola in casa. Tutto questo nel caso arrivi qualche problema. Ma arriva lo stesso, anche se metti un militare con te a casa; se arriva, arriva” (pag. 15). Emerge in modo chiaro il nostro stile relazionale, sbilanciato sulla strumentalità e sull’apparenza. “Da noi condividi quello che sei. Da voi si cerca di dare un’immagine migliore” (pag. 39). Non sono verità assolute, frasi di lapidaria condanna. La complessità dei vissuti e delle esperienze è presente nelle parole che riconoscono la gentilezza, l’amore caritatevole, il rispetto umano di chi accoglie. Sono tuttavia sguardi che toccano contraddizioni vive, tanto più per quelli di “noi” che fanno solidarietà, se il movimento del dono cela un senso di superiorità, che deriva dalla distanza tra chi dà e chi riceve. Ogni tassello del mosaico che compone il libro, ci interroga attraverso lo sguardo dello straniero prossimo a noi: casa, educazione, lavoro, lingua, bambini, anziani, corpi, morte, comunità, cibo, feste, diventano pezzi di un paesaggio che, forse, possiamo iniziare a comporre davvero insieme. Perché “l’intercultura non è là dove la si vorrebbe trovare, non è dove vorremmo portare i nostri articoli o i nostri doni. Non nei convegni sull’intercultura, ma nelle panchine sotto casa” (pag. 21).

(“Autogestione e politica prima” Agosto 2016)

Print Friendly, PDF & Email