E di come per secoli è stata considerata disdicevole e repressa, con un gran lavoro di medici, filosofi e teologi
di Giulia Siviero
La storica francese Sabine Melchior-Bonnet ha pubblicato Le rire des femmes. Une histoire sur le pouvoir, ed. Puf [La risata delle donne. Una storia di potere, Ndt], un saggio sulla risata femminile dall’antichità ai giorni nostri, argomentando come la storia di un gesto così comune nella specie umana sia sessuata: diversa, cioè, tra uomini e donne. Tale storia va di pari passo con la costruzione di un modello tradizionale di femminilità associato a un ruolo considerato a lungo giusto per la donna nella società e nel mondo, in quanto madre e angelo del focolare.
Per secoli, spiega Melchior-Bonnet, poeti, filosofi, retori, teologi e medici hanno cercato di spiegare e di stabilire, da un punto di vista biologico, morale e sociale, perché ridere non si addicesse a una donna. La storia della risata femminile è dunque anche la storia del lavoro meticoloso e costante per contenerla, reprimerla o tollerarla, ma a certe condizioni. Per lungo tempo, una donna che rideva ha violato le aspettative di genere della femminilità (che secondo alcuni stereotipi molto radicati hanno a che fare con grazia, virtù, modestia e pudicizia) e ha corso il rischio di apparire pazza, brutta, ignorante o lasciva. Guardando la storia dall’altra parte, la risata ha dunque avuto e conservato un grande potere sovversivo.
Frivolezze
Secondo un antichissimo luogo comune, le donne devono alla loro natura un’emotività che le porta a ridere spesso: non solo ridono più degli uomini, ma secondo questo stesso stereotipo passano anche senza soluzione di continuità dal riso al pianto, dall’allegria alla tristezza. È una questione di fisiologia, di umori e di organi, hanno detto i medici e i filosofi che nella storia hanno dissertato sulle cause dell’ilarità fin dai tempi antichi.
Secondo Aristotele, per il buon funzionamento di un corpo era fondamentale il calore naturale e la necessità che venissero mantenuti certi equilibri tra calore e umidità. Il medico greco Galeno, le cui teorie del II secolo d.C. hanno dominato la medicina occidentale fino al Rinascimento, sosteneva a sua volta che il sesso maschile godesse di una “temperatura” – la distinzione corretta tra calore e temperatura risale all’Ottocento – calda e secca, che invece era fredda e umida per quella femminile. Da questo temperamento a dominanza freddo-umida e dalla mancanza di calore, secondo questa teoria antica, derivavano la “tipica” irragionevolezza, incostanza, lussuria, loquacità, suggestionabilità e frivolezza della donna. La propensione al riso delle donne era insomma la conseguenza naturale di una sua lacuna strutturale: di una costituzione fisica imperfetta.
Difetti termici a parte, nella storia della filosofia e della “medicina” il disequilibrio delle donne ha trovato varie presunte spiegazioni: un minor numero di suture craniche, ad esempio, che non permettevano l’uscita dei vapori che salivano alla testa, secondo il teologo e filosofo tedesco del Medioevo Alberto Magno. Ma, su tutto, la potenza del suo sesso.
Platone descriveva l’utero come una bestia che si agitava nel corpo delle donne, che ostruiva i passaggi dell’aria e che poteva essere placata solamente quando “riempita” dal seme maschile.
Il corpo femminile e il suo benessere erano dunque strettamente collegati alle funzioni sociali: quella di moglie che aveva il dovere, anche per il suo bene, di unirsi al marito, e quella di procreatrice. Quando l’utero, vuoto, era invece lasciato libero di vagare poteva scatenare malattie, capricci, convulsioni, lacrime, crisi isteriche, e risate smodate. Ancora nel Cinquecento, il medico e chirurgo del re di Francia Laurent Joubert, nel suo Traité du Ris, citava la storia di due sorelle a cui era stato permesso di ridere così a lungo che il loro utero era salito fino alla gola rischiando di soffocarle.
Per secoli, un’alleanza tra medici e filosofi contribuì dunque a fondare su basi “scientifiche” l’interdizione per le donne al riso: la donna che se ne lasciava coinvolgere restava preda di un furore uterino molto pericoloso. Non ridere, per il sesso femminile, così come procreare era dunque e innanzitutto una questione di buona salute.
Sorridere invece che ridere
Nella sua Ars Amatoria, tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., il poeta latino Ovidio impartì molti insegnamenti per praticare l’arte della seduzione: agli uomini. E nella terza e ultima parte della sua opera fornì anche alle donne diverse indicazioni per essere amate. Alcune di queste avevano a che fare con la risata:
«Si apra moderatamente la bocca, e siano piccole le fossette delle guance, dall’una e dall’altra parte, e i bordi delle labbra coprano la parte più alta dei denti, e non stanchino i fianchi col ridere continuamente, ma il riso abbia sempre un non so che di delicato e femminile.
Vi è qualcuna che storce la bocca con risate scomposte; un’altra, quando ride allegramente, crederesti che pianga; quell’altra ride con un suono rauco e sgradevole; ride come dalla ruvida macina raglia una brutta asinella».
Da lì in poi, e fino al XIX secolo, queste poche righe hanno ispirato un intero genere letterario: i manuali e i trattati di buona educazione per “signore”, che hanno cercato di giustificare sia da un punto di vista morale che sociale perché ridere, per una donna, fosse sconveniente. Indicando canoni e precetti ben precisi a cui una donna pienamente donna si doveva attenere, come i trattati medici anche i manuali di comportamento avevano lo scopo di costruire il modello della moglie e della padrona di casa ideale: di stabilire il ruolo sociale della donna, ma anche e soprattutto quello di preservare l’ordine sociale.
Nel trattato composto nel 1318, Reggimento e costume di donna, Francesco da Barberino mise insieme un galateo femminile passando in rassegna tutti i comportamenti adeguati a una donna nelle varie situazioni della vita. Nella sua condotta pubblica, la fanciulla doveva imparare a non suscitare né invidia né desiderio né pietà, e il suo volto doveva esprimere un misto di paura, vergogna e pudore; doveva tenere gli occhi bassi e bandire il riso. Le era concesso di rilassarsi nel privato, continuando comunque a controllarsi: in nessun caso, quando provava gioia, doveva mostrare i denti.
I denti tornano spesso in questo genere di testi: nel suo manuale intitolato Mes Secrets pour plaire et pour être aimée (I miei segreti per piacere ad essere amata, del 1896) la baronessa Staffe – autrice di best seller e considerata, all’epoca, l’educatrice della donna per eccellenza – diceva che il riso era nemico della grazia femminile sia interiore che esteriore. Scegliendo di non ridere, scriveva, «il nostro spirito resterebbe più elevato, le linee del nostro viso conserverebbero meglio la loro nobiltà, e noi più intatta la nostra individualità». Ridere, per una donna, aveva poi molti inconvenienti:
«Non pensiamo mai abbastanza a tutti gli inconvenienti del ridere. Una donna che ha i denti brutti, porta la mano davanti alla bocca quando ride. Se la mano è bella, va ancora bene, ma se non lo è? L’imperatrice Joséphine, che aveva dei denti molto difettosi, aveva inventato la moda di eleganti fazzoletti da tenere in mano. Quando le veniva da ridere, ella copriva la sua bocca per mezzo del piccolo quadrato di batista e di pizzo. Sarebbe stato meglio abituarsi a non ridere, cosa che si addice, del resto, alle labbra di coloro che hanno passato la giovinezza».
Più che il riso, dunque, era raccomandato il sorriso: espressione di armonia interiore ed equilibrio mentale, di saggezza e amabilità: «La donna deve sorridere e non ridere: il sorriso è uno dei suoi più grandi fascini. Anche presso la più carina, il ridere non può che essere una convulsione o una smorfia».
Ridere andava contro l’etichetta: procurava fastidio agli altri perché era rumoroso, attirava su di sé l’attenzione e metteva in evidenza i difetti del corpo. Tali rigide regole erano valide in qualsiasi ambito, compreso quello della pittura. Il Cours de peinture par principes fu pubblicato a Parigi nel 1708 dal critico francese Roger de Piles: era una specie di compendio dei fondamenti della pittura e dei generi del ritratto e del paesaggio. Tra le regole vi era quella che il volto di una donna dovesse essere serio o leggermente sorridente, «di nobile semplicità e modesta giocosità».
Nell’agosto del 1787, la pittrice Vigée Le Brun presentò al Salon di Parigi, la principale vetrina artistica che si teneva ogni anno al Louvre, un autoritratto con la figlia Julie. L’artista intendeva esprimere la sua felicità di madre, ma lo fece dipingendosi con un sorriso che sconfinava nel riso e che metteva in mostra i denti, con risultati scandalosi.
La bocca come una vagina
C’erano molte buone ragioni per impedire alle donne di abbandonarsi al riso, ma la principale era l’associazione del riso alla sessualità. La risata, spiega Melchior-Bonnet, «apre il corpo», a differenza di un sorriso che lascia invece il corpo chiuso, composto e decoroso. E ancora una volta, le questioni morali e sociali trovarono nella fisiologia una loro alleata.
Per i medici ippocratici il corpo della donna era delimitato da due aperture: una inferiore (vagina-utero) e una superiore (bocca-narici), unite da un lunghissimo canale che passava attraverso gli intestini, lo stomaco e la gola. La donna che rideva manifestava dunque direttamente e pubblicamente il proprio piacere sessuale, apriva un varco, ed era di conseguenza sospettata di essere una prostituta, una cortigiana o una donna poco onesta e lussuriosa.
I Greci avevano una parola precisa per indicare la risata aperta e perturbante delle donne, che il padre della Chiesa Clemente Alessandrino riprese nel Pedagogo, un trattato pratico in tre libri il cui scopo era quello di addestrare il cristiano a una vita disciplinata. Ridere fa parte della natura umana, diceva, e dunque non può essere proibito totalmente. Ma il riso va usato con parsimonia: da tutti, ma soprattutto dalle donne poiché desta sospetto. «Principalmente nelle giovinette e nelle donne il riso è facile ad essere male interpretato» scriveva. E ancora:
«Lo spianare il volto in modo che le sue linee diventino armoniche come le corde di uno strumento, si dice sorridere, è questa un’espressione dolce che risplende nel volto, e questo è il riso dei saggi. Il rilassamento eccessivo del volto se avviene nelle donne è detto kichlismos, ed è un riso proprio delle meretrici».
Il legame bocca-vagina si rinforzò, storicamente, nel Medioevo: nell’ambito delle regole monastiche e del pensiero cristiano. Riprendendo la fisiologia che identificava il maschile con la parte superiore del corpo e il femminile con quella inferiore, il riso e la donna vennero associati al peccato. Una donna che rideva era dunque la peggior cosa a cui si potesse pensare. Come spiega Daniela Carpisassi, esperta in storia delle scritture femminili e saggista che si è a lungo occupata di riso e umorismo femminile, «se il riso e la donna sono incompatibili con la questione del controllo del corpo, il ridere da parte della donna è atto doppiamente peccaminoso, gesto della femme fatale, dannata e che conduce alla dannazione dell’uomo, atto di incontinenza che costituisce una duplice colpa».
Del resto, ricorda la studiosa, la parola latina culpa deriva dal greco kolpos che significa «utero», «vagina»: indica una «mancanza» e «un’azione che contravviene alla norma (etica e religiosa)»: «Lo schiudersi di labbra nel ridere richiama l’atto sessuale ed è considerato licenzioso e indecente in modo particolare per le donne, destinate a essere emblemi disincarnati della virtù e del pudore». Il riso femminile, in quest’ottica, compromette l’onestà, costituisce «un invito, una tentazione, un concedersi, un aprire la porta della/alla perdizione, un disserrare la bocca-chiavistello».
Brutta
Per secoli, una donna che rideva non correva solo il rischio di apparire poco onesta, ma anche di perdere la sua bellezza. La risata disarticola il corpo, lo fa sussultare, deforma il viso, lo fa contrarre in smorfie. E sono molte le dettagliate descrizioni del corpo femminile trasfigurato da una risata.
Padre Le Moyne, esploratore francese del Seicento e poeta nel tempo libero, descrisse ad esempio con precisione gli effetti disastrosi di una risata sul volto di una donna:
«Toglie la proporzione della bocca, mette le guance fuori dalla loro posizione naturale, gonfia le vene e le fa sporgere fuori dal loro posto, spegne gli occhi e li annega, copre il viso di rughe e dona alla persona le smorfie degli indemoniati e le convulsioni degli epilettici».
Il riso, spiega ancora Carpisassi, «alterando i tratti distintivi della donna, ne stravolge la “giusta” forma, contravviene al canone della bellezza, lede la femminilità tout-court». Il riso era dunque considerato per una donna socialmente sconveniente, «non vantaggioso nella relazione privata tra i sessi, ovvero nell’ambito della seduzione strategicamente esercitata dalla donna nei confronti dell’uomo: quando ella ride, perdendo femminilità e bellezza, compromette la propria appetibilità e desiderabilità mettendo così a rischio la propria realizzazione sociale e l’istituzione “famiglia”».
Bruta
La risata femminile poteva tradire anche stoltezza e stupidità. Platone nel Teeteto fa narrare a Socrate un aneddoto relativo a Talete:
«Talete, mentre stava scrutando le stelle e guardava in alto, cadde in un pozzo. Allora una servetta di Tracia, garbata e graziosa, rise dicendogli che si dava un gran da fare a conoscere le cose del cielo, ma le cose che gli stavano dappresso, davanti ai piedi, gli rimanevano nascoste».
Una giovane donna, schiava, e che proviene dalla Tracia (fatto che, di per sé, era al tempo cifra di ignoranza e di scarsa intelligenza), ride di Talete, il primo filosofo. L’aneddoto di Platone, nel corso dei secoli, è stato ripreso e commentato per spiegare l’incomprensione della speculazione filosofica da parte della gente comune. Il riso della servetta, una donna dedita alle cose minute della vita e alla cura dei corpi, divenne cioè il paradigma dell’ottusità sempliciotta degli ignoranti nei confronti della theoria, ossia nei confronti della contemplazione della realtà superiore e del vero operata dal pensiero.
La risata sovversiva
Nell’interpretazione dell’aneddoto della servetta di Tracia, la filosofa femminista Adriana Cavarero sottolinea come la risata della donna abbia anche il potere di denunciare la pretesa verità e universalità dell’astrazione filosofica «che vorrebbe rimuovere in un’operazione, in fondo unica e coerente, le cose della terra e i corpi», cioè il femminile. Il riso porta dunque con sé una potente carica critica e dissacrante.
Fin dalle commedie di Aristofane, la risata delle donne è sovversione. È quando guidano la loro protesta e fanno uno sciopero del sesso che ridono: tra di loro e senza uomini. Lungo la storia della letteratura, dei miti e delle religioni, Melchior-Bonnet passa in rassegna diverse figure femminili che ridono e sovvertono, raccontando anche la lenta conquista del riso da parte delle donne.
Una delle prime a raccontare il ruolo emancipatorio della risata fu Virginia Woolf, scrittrice spesso superficialmente associata a malattia, depressione e suicidio. Nel 1905 Woolf pubblicò sul Guardian un breve saggio dal titolo Il valore della risata. La risata, «la pura, spontanea risata, quella che sentiamo provenire dalla bocca dei bambini e di sciocche donne», spiega Woolf, «è tenuta in discredito»: «si sostiene sia la voce della frivola stupidità, che non trae ispirazione né dal sapere né dall’emozione, che non offre messaggi, non comunica informazioni».
La risata porta invece con sé, dice Woolf, un grande sapere: mostra gli esseri umani per quello che sono e li mette a nudo. E i soggetti che più sono in grado di fare tutto questo sono i bambini e le donne:
«Tutti sanno che i bambini hanno una maggiore capacità, rispetto agli adulti, di conoscere gli uomini per quello che sono, e credo che il verdetto che le donne emettono sul carattere delle persone non sarà smentito il giorno del Giudizio. Le donne e i bambini, dunque, sono i principali rappresentanti dello spirito comico, perché non hanno gli occhi annebbiati dal sapere, né le menti ingombrate da teorie libresche, il che fa sì che uomini e cose preservino nitidamente i loro tratti originali. Tutte le odiose, soffocanti escrescenze che hanno ricoperto a dismisura la nostra vita moderna, le cerimonie pompose, le convenzioni, e le noiose celebrazioni solenni, niente temono di più del balenare di una risata, che, come un lampo, le inaridisce e le dissecca fino a lasciarne solo le ossa. È perché la loro risata possiede questa qualità che i bambini sono temuti dalle persone consapevoli della propria affettazione e falsità; ed è probabile che, per la stessa ragione, le donne siano guardate con tanta sospettosa disapprovazione nelle professioni dotte. Il pericolo è che possano ridere, come il bambino nella favola di Hans Andersen, che notava apertamente che il re era nudo, mentre gli adulti ne ammiravano lo splendido abbigliamento – che non esisteva».
Il riso, a partire da Virginia Woolf e poi per altre scrittrici del Novecento, ha permesso di svelare gli artifizi della società, di liberarsi dalle convenzioni e di smontare ruoli e stereotipi. La risata è stata rivendicata da quelle donne che hanno sfuggito la norma, che hanno sfidato l’ordine sociale e i giudizi morali, spiega la storica Melchior-Bonnet, ed è proprio per questa sua intrinseca minaccia che la risata delle donne è stata così a lungo negata, sorvegliata o tollerata purché nascosta dietro a un ventaglio. Ridendo le donne si sottraggono al loro ruolo, e «mettono di fatto in pericolo la virilità».
(Il Post, 12 gennaio 2022)