Nel suo ultimo romanzo, «Più forte di me», da poco uscito per Feltrinelli, Rossana Campo mette in scena un’eroina che cerca di placare nell’alcol il suo desiderio di felicità sullo sfondo di una città ostile
Anna Grazia D’Oria
Che Rossana Campo non sia una scrittrice di metafore, lo conferma anche il suo ultimo romanzo, Più forte di me, uscito di recente per Feltrinelli (pp. 276, euro 16), ancora una volta pienamente calato nella realtà delle situazioni e scritto in una ossessiva presa diretta. Referente privilegiata è sempre la donna, l’io narrante che sotto nomi diversi, con identità di volta in volta differenti ma sempre in qualche modo affini, il lettore ha imparato a conoscere nei libri precedenti della scrittrice genovese dal fortunato esordio di In principio erano le mutande, uscito nell’ormai lontano 1992, ai più recenti Duro come l’amore e L’uomo che non ho sposato.
Qui tuttavia il discorso si presenta più ampio, non più solo un monologo interiore, lo specchio di una situazione femminile che si dilata all’inverosimile. Se pure il romanzo ruota intorno all’assunto secondo cui «dentro ogni ragazza vive una zingara», costante delle altre opere di Rossana Campo, in Più forte di me il coinvolgimento sociale è più ampio, quasi a delineare uno squarcio nascosto della metropoli contemporanea. Così attuale e concreta nella descrizione delle vie, dei quartieri, dell’atmosfera, Parigi potrebbe in realtà essere Roma, o un’altra grande città dell’occidente. Chi sta ai margini vive la stessa storia, sente gli stessi problemi; angosce, sofferenze, miserie, scandite da una domanda fissa, semplice e dura, ricorrente nelle pagine: «vivere per cosa? per chi?».
Più o meno grandi, ma comunque totalizzanti, i disagi vengono esorcizzati nell’alcol. La protagonista infatti affronta il tradimento del marito rifugiandosi nel bere e automaticamente si ritrova a vivere dentro una dimensione diversa: suoi compagni di strada diventano gli emarginati e i senzatetto, la casa è l’ospedale per non morire e la clinica per disintossicarsi, di qui passa il cammino faticoso per riemergere.
Per essere vivi, pensa la donna, «non basta poter respirare». Continuamente inseguita e affannosamente rincorsa, ma di rado vissuta, la felicità è una «gran puttana». E tuttavia, a costo di cercarla in fondo a una bottiglia o nel corpo che vibra nel rapporto sessuale, vivere desiderando la felicità, e anzi proclamando «il coraggio di essere felici», è una costante delle eroine di Rossana Campo e anche dei personaggi che ruotano intorno alla protagonista di questo suo utimo libro, personaggi che hanno alle spalle storie diverse, e però convergenti nell’annullamento di sé attraverso l’alcol.
Così, quando la disperazione aumenta, il desiderio di amare (che coincide con l’amore stesso) appare ancora più forte, sembra tutto nella vita. Non a caso i vari personaggi che affollano le pagine di Più forte di me e che sono tutti, senza eccezioni, figure «eccentriche», discoste dalla «normalità» (tanto che le pagine più intense del libro sono ambientate nella clinica dell’Olivier dove l’ottica consueta si capovolge e una banda di matti disperati ubriaconi finalmente trova la volontà di vivere), esprimono un desiderio comune: «Vogliamo un po’ d’attenzione, vogliamo essere amati e sentire un po’ di calore. Per sopravvivere abbiamo bisogno di questo».
Questo calore, questa solidarietà, questa amicizia, si riveleranno più forti del sesso (che è precario), più forti dell’alcol (che è ingannatore). In questo libro sconsolato, l’autrice può dunque avanzare una ricetta, un messaggio: per salvarsi in una società dura che annulla tutto, il segreto è il dialogo, la solidarietà, la condivisione. Solo questa deve essere la vera felicità, dice alla fine Rossana Campo con serietà, rinunciando all’ironia che traspare invece in tutte le pagine e che non risparmia né le donne né tanto meno gli uomini, descritti quasi tutti come imbelli, manichini, egoisti (con qualche eccezione: Fred, l’amico gay, spiritoso, equilibrato, disponibile; il medico Alain che cura bruscamente anche l’anima, Thierry, l’edicolante generoso).
Un’ironia che l’autrice sembra rivolgere anche a se stessa e perfino alla sua scrittura: «Libri e libri, parole e parole, ah quanto le disprezzo tutte le palle inventate che riempiono la maggior parte dei libri che stanno ammucchiati sui banconi delle librerie. Libri e libri su tutti gli scaffali e i tavoli puliti e spolverati, tutti lì in fila come soldatini a cercare di farsi leggere le loro cazzate che non fanno troppo male a nessuno, né a chi le scrive né a chi le legge, tutta quella roba che non c’entra niente con la mia vita». Sono parole che Rossana Campo mette in bocca alla sua protagonista che – guarda caso, in un gioco di specchi fra finzione e autobiografia – fa la scrittrice di mestiere. Proprio come l’autrice che, facendo mostra di non prendere sul serio il proprio lavoro, fa dire ancora alla protagonista: «Scrivo per ridurre un po’ la mia pazzia sul tavolo dove taglio le cipolle».
Le cipolle fanno piangere, ma questo non è per fortuna un libro strappalacrime. È anzi un libro molto serio, come lo è la scrittura – e Rossana Campo lo sa bene – quando si fa testimonianza.