25 Ottobre 2019
La Civiltà Cattolica

Svetlana Aleksievič alla ricerca dell’umanità


Pubblichiamo integralmente, per gentile concessione, questo articolo apparso sulla rivista La Civiltà Cattolica (2019 I 587-595) (https://www.laciviltacattolica.it/articolo/svetlana-aleksievic-alla-ricerca-dellumanita/).


di Marc Rastoin S.I.

La Civiltà Cattolica n. 4050, 16 marzo-6 aprile 2019


Svetlana Aleksievič è una professoressa di storia bielorussa diventata giornalista. Ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura nel 2015. Quale la motivazione? I suoi libri più importanti in effetti non sono opere di finzione, ma l’elaborazione di centinaia di testimonianze di persone comuni, pazientemente raccolte: la testimonianza delle donne che avevano partecipato alla grande guerra patriottica, la Seconda guerra mondiale1; quella di persone che avevano conosciuto la guerra in Afghanistan2; quella di tutti coloro che erano stati toccati in un modo o nell’altro dalla catastrofe nucleare di Černobyl, nel 19863; quella di cittadini sovietici, in seguito russi, che erano passati attraverso lo stalinismo, la destalinizzazione, la glaciazione brezneviana e, infine, l’avvento della democrazia4.

Munita di un registratore, Svetlana intervista a lungo i te­stimoni che incontra: ne diventa l’amica, la confidente, un orecchio benevolo. A lei si racconta quel­lo che a volte non si è ancora mai detto a nessuno.

Poi lei compone il suo libro, al­ternando testimonianze lunghe e brevi, facendole precedere da brevi note introduttive, dove spesso illustra le circostanze in cui ha incontrato i suoi interlocutori. Vi è una genialità nella sua maniera di organizzare le testimonianze così che non appaia­no sconnesse, ma formino, a poco a poco, un itinerario coerente. Incarnandosi nel cuore del destino russo in un secolo terribile, la scrittrice ar­riva a comprendere l’intero universo, e i lettori di tutto il mondo ne hanno ben colto il linguaggio universale.

Una storica originale

Non è del tutto a caso che Svetlana pone le sue domande: cerca invece non una verità fattuale, documentaria, fredda, bensì l’eco interiore degli avvenimenti, i fremiti dell’animo, un fondo di umanità che si trova nascosto nel cuore degli eventi peggiori. «Io cammino – lei dice – sulle tracce della vita interiore, procedo alla registrazione delle anime. Il cammino delle anime è per me più importante dell’evento stesso»5. Per questa ragione è giusto riconoscere il lavoro di ricomposizione che la scrittrice compie.

Ogni storia, ogni racconto è costretto a fare una cernita dei dati. Un altro storico o un altro essere umano farebbero altre scelte. Svetlana stessa riconosce che è innanzitutto come scrittrice umanista che lei compie il suo lavoro: «Non finisco mai di meravigliarmi nel constatare fino a che punto le vite delle persone comuni siano in realtà interessanti. Con la loro infinita varietà di cose vissute… La storia è interessata soltanto ai fatti, e le emozioni ne restano escluse. Non hanno accesso alla grande storia. Io invece guardo il mondo non con gli occhi dello storico, ma con quelli di chi cerca anzitutto l’uomo e non finisce mai di stupirsene»6.

Senza cambiare affatto il contenuto delle testimonianze raccolte, Svetlana le intesse insieme, ed è in tale tessuto – così come ovviamente nella selezione delle voci – che si compie il suo lavoro. All’inizio, e poi in maniera frammentaria, lei segnala la sua presenza, come talora le reazioni fisiche dei suoi interlocutori, i loro pianti o i loro silenzi. Non pretende di essere neutrale, anzi. Una giovane che aveva perso l’intera famiglia nel pogrom anti-armeno di Baku nel 1990 le esprime la sua gratitudine: «Grazie. Grazie di non avere paura di me. Grazie per non distogliere lo sguardo come fanno gli altri. Grazie di incontrarmi. Non ho amici qui, e nessun ragazzo mi fa la corte… Io parlo, non smetto di parlare… di raccontare… se ne stavano là sdraiati, così giovani, così belli…». E alla fine del racconto la scrittrice aggiunge un’annotazione che mostra come spesso lei abbia creato un rapporto personale con i suoi testimoni: «Sei mesi dopo ho ricevuto una lettera da quella giovane: “Entro in monastero. Ho voglia di vivere. Pregherò per lei”»7.

Svetlana condivide le emozioni che la travolgono quando ascolta storie a volte strazianti per il loro orrore: «L’anima diviene silenziosa e attenta: non si tratta più di eventi lontani e passati, ma di una scienza e di una comprensione dell’essere umano di cui c’è sempre bisogno. Anche nel giardino dell’Eden. Poiché lo spirito umano non è così forte e così protetto come si crede, ma ha continuamente bisogno di venire sostenuto. Ha bisogno che da qualche parte gli venga data un po’ di forza»8. Ma ciò che la tocca di più è l’umanità dell’umano: «È proprio nella calda voce della persona, nel vivo riflesso del passato che in essa si riverbera che arde la gioia primeva della vita e insieme la sua ineluttabile tragicità»9.

Nella scrittrice si trova la volontà di dare uguale spazio alla grazia e al peccato, alla bontà semplice e alla crudeltà gratuita. Nell’evocare l’esperienza delle migliaia di donne al servizio dello sforzo bellico sovietico, scrive: «Esse possiedono l’espe­rienza che hanno acquisito nell’orrore: un’esperienza non solo della guerra, ma dell’uomo in generale, del sublime di cui l’uomo è capace in quanto essere umano, e dell’abiezione di cui è capace in quanto creatura disumana. Lì tutto si accosta: il nobile e il vile, il semplice e l’atroce. Ma non è l’orrore quello di cui ci si ricorda, o almeno non è tanto l’orrore, bensì la resistenza dell’essere umano nell’orrore. La sua dignità e la sua fermezza. La maniera con cui l’umano resiste al disumano, proprio perché è umano»10.

È tale umanità, talvolta sfigurata ma tanto bella, che Svetlana vuole onorare: «Devo dunque allargare l’orizzonte: scrivere la verità sulla vita e la morte in generale e non solo la verità sulla guerra […]. Indubbiamente il male sa essere attraente, più elaborato nelle sue trame che non il bene: ci ipnotizza con il fondo di disumanità che è profondamente nascosto nell’uomo. Sono stata sempre curiosa di sapere quanto vi sia di umano nell’uomo, e come l’uomo possa difendere l’umanità che c’è in lui»1111. La scrittrice ha messo la sua penna al servizio dell’umano e della vita, i suoi doni di empatia al servizio della parola.

Il mondo della donna

Il suo sguardo sulla storia vuol essere quello di una donna, e Svetlana è profondamente convinta che lo sguardo delle donne sul mondo, sulla realtà e sulla vita sia di una qualità, di un colore particolare. Tale convinzione attraversa il suo lavoro, e all’inizio della sua raccolta sulle donne soldato dell’Armata rossa lei confessa all’improvviso: «Gli uomini si trincerano dietro i fatti, la guerra li cattura, come l’azione e l’opposizione delle idee; le donne invece percepiscono attraverso i sentimenti. Lo ripeto malgrado tutto: si tratta di un altro mondo, diverso da quello degli uomini. Con i suoi odori, i suoi colori propri. Ma soprattutto esse sentono intensamente tutta l’intollerabilità dell’uccidere, perché la donna dà la vita, offre la vita»12.

Ciò non impedirà alla donna di poter uccidere, ma lei lo farà per amore della sua famiglia, di suo marito e dei figli, più che per un’idea. E Svetlana scrive: «È vero anche che le donne, non importa in quale circostanza, sia essa la più grandiosa o la più terribile, sono capaci di vivere la propria storia intima: la propria vita di donna si apre un cammino attraverso qualsiasi ostacolo. La propria vita di donna conta più di ogni cosa. Forse è questa la ragione per cui queste donne sono sopravvissute alla guerra senza perdere la loro anima. Preservando il loro io nel più profondo di se stesse. Le donne infatti vivono in un modo più sensuale [ossia sensibile] e sottile degli uomini: sono fatte così. Nel loro mondo, l’esistenza e l’essere coincidono»13.

E sono talora degli uomini a riconoscerlo, come quel russo che afferma: «Mi sono reso conto che le donne sono qualcosa di diverso quando avevo 17 anni, e non nei libri, ma nella mia carne. Avevo sentito lì, accanto a me, qualcosa di totalmente altro, di totalmente diverso, e questo mi aveva sconvolto. Lì, all’interno, in quel contenitore che era la donna, c’era qualcosa di nascosto, qualcosa che mi era inaccessibile»14.

Lo sguardo delle donne sulla guerra è diverso da quello degli uomini, perché esse sono radicate nel sensibile e aperte alla vita che nasce. «Ho la sensazione che loro e io non parliamo della guerra, ma dell’esistenza umana. Che insomma meditiamo sull’uomo»15. Svetlana osserva che più le donne sono vicine al popolo, più avvertono questa cosa. «Le persone più sincere sono le donne semplici […]. Le parole per raccontare le trovano in se stesse e non in giornali o nel libro che hanno letto […]. I sentimenti e la lingua delle persone istruite, per quanto possa apparire strano, sono spesso più soggetti al lavorio del tempo nel senso di una loro omologazione. Sono contagiati da conoscenze di seconda mano che non sono le loro»16.

E nel mezzo della violenza sulla prima linea del fronte, gli uomini si ricordano vagamente di ciò: «Se gli uomini vedevano una donna in prima linea, gli si trasfigurava il volto, anche il solo suono di una voce femminile sortiva lo stesso effetto»17.

Non vi è un’ideologia nell’attenzione per le donne da parte di Svetlana Aleksievič, ma un’acuta consapevolezza della loro grande complicità con la vita.

Il carattere russo

Che cosa non si è scritto sull’«animo russo»18? Esiste un animo russo? Ogni popolo ha la sua storia, la sua cultura, il suo modo di vedere la vita. In una intervista ha affermato: «Penso che non ci sia alcun particolare animo russo. […] Si tratta di un certo mito, diffuso soprattutto in Europa, circa l’animo russo. Anche se non si può negare che c’è qualche spiegazione per l’esistenza di tale mito, e non unicamente a causa della letteratura di Dostojevskiy: quando viaggio attraverso questo grande Paese [la Russia], si potrebbe pensare che noi bielorussi siamo vicini, ma fin da subito si capisce che [in Russia] si tratta di un altro ambiente, un altro popolo, un’altra storia»19. In Svetlana non c’è la volontà di glorificare la propria nazione, ma il desiderio, come di sfuggita, di cogliere atteggiamenti interiori, riflessi culturali così come lei li scopre e comprende.

Il popolo russo si caratterizza per un’incredibile capacità di sopportare la sofferenza, che ha un parallelo solo nella sua resilienza nel combattere il gelo invernale. Quando nel 1944-45 i soldati sovietici scoprirono le prime case tedesche, rimasero stupiti per la loro comodità e ricchezza, e si chiesero: «Ma che sono venuti a cercare da noi?». Uno di quei testimoni ricorda la capacità di sopportazione del popolo russo: «Da noi, tutte le sofferenze sono curate con una sola medicina: la pazienza. Così è trascorsa tutta la nostra vita»20.

Ma questo comporta una certa difficoltà ad accogliere la gioia. Intorno al 2000, una donna esprime la cosa così: «Mia figlia ha sposato un italiano. […] Quando vengono a trovarmi, facciamo grandi discussioni in cucina. Alla russa… fino all’alba. Sergio pensa che ai russi piaccia soffrire, che sia quello il segreto della mentalità russa. Per noi, la sofferenza è “una battaglia personale”, “la via della salvezza”. Gli italiani, invece, non sono così: non vogliono soffrire, ma amano la vita che ci è stata data per trarne gioie e non sofferenze. Ma noi siamo diversi. Raramente parliamo della gioia… del fatto che la felicità è tutta un’altra cosa»21.

Un’altra donna osserva: «L’uomo non è preparato per la felicità, ma per la guerra, il freddo e la grandine. Non ho mai incontrato persone felici, mai, eccetto mia figlia di tre mesi… I russi non si preparano alla felicità. (Pausa) Tutte le persone normali si portano dietro i figli all’estero. Ho molti amici che sono partiti […]. Prima non pensavo di emigrare, di partire… Ho iniziato a pensarci quando è nata mia figlia. Voglio proteggere quelli che amo»22.

Non si può neanche negare che la cultura popolare russa sia molto segnata dal cristianesimo. Che ne dice Svetlana? Lei racconta la storia di una profuga russa che fuggiva dal Caucaso e aveva vissuto la miseria a Mosca. Un uomo semplice la sposa: «Sono uscita dall’ospedale e ci siamo sposati. Lui mi ha portato da sua madre. È una contadina semplice. Ha passato tutta la vita nei campi. Non c’è un solo libro a casa loro. Stavo bene. Tranquilla. Anche lei; le ho raccontato tutto. “Non è grave, piccola mia”. Mi ha abbracciato. “Dove c’è amore, lì c’è Dio”. Ora ho voglia di vivere, con tutte le mie forze»23.

Un’incredibile capacità di soffrire e di sopportare che ha un parallelo solo in un’impressionante capacità di empatia e di generosità.

L’amore malgrado l’odio

In alcuni la guerra ha fatto crescere l’odio come unico mezzo per impegnarsi e vivere quell’inferno: il desiderio di vendicare i propri morti. Afferma una donna: «L’odio ci ha travolti, era più forte della paura che provavamo per i nostri parenti, per ciò che amavamo, più forte della paura di morire»24.

Anche altri concordano con lei su questo punto. Tuttavia, ciò che colpisce è il modo in cui la guerra può anche far crescere l’amore. È noto il celebre aneddoto nel grande romanzo di Vasilij Grossman, Vita e destino, riguardo alle donne sovietiche che davano delle patate a dei prigionieri tedeschi. Le sue parole ci ricordano quelle di Svetlana: «Ma c’è […] una bontà quotidiana. È la bontà della vecchia che porta un pezzo di pane a un prigioniero, del soldato che dà da bere dalla sua borraccia al nemico ferito, della gioventù che ha pietà della vecchiaia; è la bontà del contadino che nasconde nella stalla un vecchio ebreo […]. Questa bontà privata di un singolo individuo nei confronti di un suo simile è senza testimoni, una piccola bontà senza ideologia. La si può chiamare bontà insensata. La bontà degli uomini fuori del bene religioso o sociale. Ma se ci soffermiamo a riflettere, ci accorgiamo che la bontà fine a se stessa, privata, casuale, è eterna»25.

Alcune donne soldato testimoniano un atteggiamento analogo: «Ho preso un pane, l’ho spezzato in due, dandone una metà. Lui l’ha presa. Con prudenza… Lentamente… Non ci credeva… Ero felice… Ero felice di vedere che non ero capace di odiare. Ero stupita di me stessa»26. Un’altra donna riferisce che alcuni soldati non impediscono loro di aiutare i prigionieri, pur avendole inizialmente rimproverate: «Ecco l’animo del soldato russo. Ci disapprovavano, ma essi stessi hanno dato del pane al loro nemico. È un sentimento tanto vivo. Un amore puro. Per tutti»27.

Svetlana è sensibile a questa importanza decisiva di essere stati amati per poter amare. Lo illustra bene un dialogo con una donna: «“Ma come hai fatto a rimanere in vita laggiù?”. “Sono stata molto amata quando ero piccola”. Quello che ci salva è la quantità di amore che abbiamo ricevuto, è la nostra riserva di forza. Solo l’amore salva… L’amore è una vitamina senza la quale l’uomo non può vivere, il suo sangue si coagula e il suo cuore si ferma»28.

Un’altra donna le parla della zia: «Zia Nadia… Senza di lei… È il mio angelo custode… Non mi era zia di sangue, ma ora è molto più vicina della mia vera famiglia; mi ha lasciato in eredità la sua parte in un appartamento della comunità. Ora. Sì… Aveva vissuto con mio zio, che è morto da tempo. Non erano sposati, convivevano soltanto. Ma so che si amavano. È a persone così che ci si può rivolgere… È a persone che hanno conosciuto l’amore che ci si può rivolgere…»29. Non c’è nessun facile sentimentalismo in questo termine «amore»: «L’amore è un lavoro difficile. Per me è innanzitutto un lavoro»30.

La religiosità popolare

Queste donne soldato e questi vecchi sovietici sono cresciuti in un Paese dove l’ateismo era dottrina di Stato, e qualsiasi tipo di catechesi è stato proibito per tre o quattro generazioni. Tuttavia la fede non è assente, ed è sorta in modo inatteso. La scrittrice usa spesso la parola «fede» per indicare il credo comunista: «Per me, in fin dei conti, quella generazione non è tanto quella della guerra, ma della fede. Quando questi uomini e queste donne parlano della loro fede, i loro volti diventano ispirati. Oggi non vedo intorno a me volti del genere»31. Qui si può scorgere il transfert che è avvenuto tra l’ideale comunista e la fede cristiana, in particolare nella sua prospettiva escatologica. Ma altrove questo termine designa propriamente la fede in Dio.

Talvolta vediamo anche pagine della Bibbia prendere vita sotto i nostri occhi, come quando una donna descrive una madre che ha perso il figlio e che piange per altri giovani soldati: «Mi sono sentita sconvolgere, lo vede – ci penso ancora oggi –, da questa grandezza del cuore materno. Nel suo immenso dolore, anche quando si stava seppellendo suo figlio, aveva tanto cuore da piangere anche gli altri figli, come se fossero i suoi…»32. Ci viene in mente la concubina di Saul, Rispa, che per mesi vegliò su sette impiccati, due soli dei quali erano suoi figli: «Allora Rispa, figlia di Aià, prese il sacco e lo stese sulla roccia, dal principio della mietitura fino a quando dal cielo non cadde su di loro la pioggia. Essa non permise agli uccelli del cielo di posarsi su di loro di giorno e alle bestie selvatiche di accostarsi di notte. Fu riferito a Davide quello che Rispa, figlia di Aià, concubina di Saul, aveva fatto» (2 Sam 21,10-11). Il gesto di compassione di una donna disperata ha emozionato e scosso il re Davide.

Altre donne si aggiungono alla schiera di queste donne forti nel dolore e ricche di misericordia, di cui alle volte la Bibbia ci consegna i nomi. Quando una colonna di soldati parte per andare al fronte e incontro alla morte all’inizio della guerra, un testimone narra che un’anziana «donna se ne sta al bordo della strada […] con le braccia incrociate sul petto, si inchina mentre i soldati passano; lei si inchina davanti a loro e dice: “Dio voglia che torniate a casa”. E, sa, lei si inchina così davanti a ognuno, per ripetergli ogni volta quelle parole. Tutti avevano le lacrime agli occhi»33.

Conclusione

È una straordinaria opera di memoria quella compiuta da Svetlana Aleksievič. Così lei rende omaggio agli umili, ai piccoli, ai dimenticati: «È vero: non amo le grandi idee, ma i piccoli, gli umili. Ma ancora di più: amo la vita»34. E lo fa partendo dal suo dono di empatia, ascoltando per ore per­sone che le confidano ciò che è quasi impossibile dire. Le ore buie del XX secolo non possono essere raccontate unicamente con storie di battaglie e discorsi, con analisi ideologiche e lotte all’interno dei partiti. In bianco e nero. Quelle ore assumono un colore nuovo e indimenticabile quando sono esseri umani ad aprire la propria anima a un altro. Essi ci ispirano, ci spingono a vivere meglio.

C’è una dimensione indissociabilmente etica e spirituale nella ricerca letteraria e umana di Svetlana Aleksievič: «Ho bisogno anche di coraggio per sfuggire all’influenza della mia epoca, del suo linguaggio e dei suoi sentimenti. Esiste una sola via: amare l’essere umano. Il forte e il debole, l’insicuro e lo spietato. Il mortale e l’immortale. L’altro. Sto solo facendo l’apprendistato di questo amore»35. Bisogna esserle grati per questo.


(La Civiltà Cattolica, 2019, pagg. 587-595)


1 Cfr S. Aleksievič, La guerre n’a pas un visage de femme, Paris, Presses de la Re­naissance, 2004 (tr. it., La guerra non ha un volto di donna. L’ epopea delle donne sovietiche nella Seconda guerra mondiale, Firenze, Giunti, 2017).

2 Cfr Id., Les cercueils de zinc, Paris, Christian Bourgois, 1990 (tr. it., Ragazzi di zinco, Roma, E/O, 2015).

3 Cfr Id., La Supplication: Tchernobyl, chronique du monde après l’apocalypse, Paris, Lattès, 1999 (tr. it., Preghiera per Černobyl. Cronaca del futuro, Roma, E/O, 2018).

4 Cfr Id., La Fin de l’homme rouge ou le Temps du désenchantement, Arles, Actes Sud, 2013 (tr. it., Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo, Firenze, Giunti, 2018).

5 Id., La guerre n’a pas un visage de femme, cit., 52.

6 Id., La Fin de l’homme rouge…, cit., 22 (tr. it., 13).

7 Ivi, 351.

8 Id., La guerre n’a pas un visage de femme, cit., 8.

9 Ivi, 16 (tr. it., 17).

10 Ivi, 212.

11 Ivi, 14 (cfr tr. it., 14 s).

12 Id., La Fin de l’homme rouge…, cit., 529.

13 Id., La guerre n’a pas un visage de femme, cit., 242.

14 Ivi, 17.

15 Ivi, 10.

16 Ivi (tr. it., 11 s).

17 Ivi, 204 (tr. it., 218).

18 Anche se Svetlana Aleksievič è figlia di padre bielorusso e di madre ucraina, scrive in russo e nei suoi libri raccoglie le sue testimonianze per lo più tra le popolazioni dell’ex Unione Sovietica.

19 Testo tratto da un’intervista rilasciata da Svetlana Aleksievič a Polskie Radio nel 2015 (www.radiopolsha.pl/6/249/Artykul/211785).

20 Ivi, 119.

21 Ivi, 308.

22 Ivi, 529.

23 Id., La Fin de l’homme rouge…, cit., 469

24 Id., La guerre n’a pas un visage de femme, cit., 329.

25 V. Grossman, Vie et Destin, Paris, LGF, 2015, 541 s (tr. it., Vita e destino, Milano, Jaca Book, 1984, 405 s).

26 S. Aleksievič, La guerre n’a pas un visage de femme, cit., 103.

27 Ivi, 294.

28 Ivi, 315.

29 Id., La Fin de l’homme rouge…, cit., 467.

30 Ivi, 312.

31 Id., La guerre n’a pas un visage de femme, cit., 126.

32 Ivi, 367.

33 Ivi, 292.

34 Ivi, 27

35 Ivi, 188.

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