di Carlotta Cossutta
«Pensare, pensare dobbiamo. In ufficio, in automobile, mentre tra la folla osserviamo l’incoronazione, mentre passiamo accanto al monumento dei caduti, mentre percorriamo Whitewall, mentre sediamo nella tribuna riservata al pubblico della Camera dei comuni, dei tribunali, ai battesimi, ai matrimoni, ai funerali. Non dobbiamo mai smettere di pensare: che civiltà è questa in cui ci troviamo a vivere? Cosa significano queste cerimonie e perché dovremmo prendervi parte? Cosa sono queste professioni e perché dovremmo diventare ricche esercitandole?».
Queste righe de Le tre ghinee di Virginia Woolf, citate da Tristana Dini in La materiale vita, potrebbero segnare il tono di tutto il ricchissimo testo, che invita a pensare e ripensare agli intrecci tra biopolitica e differenza sessuale.
Questo libro prende le mosse – e il titolo – da un progetto iniziato da Tristana Dini con Angela Putino, che purtroppo non ha avuto il tempo di svilupparsi, ma di cui restano tracce importanti nell’impostazione del discorso e nell’approccio ai temi trattati.
Il centro del progetto è quello di analizzare insieme biopolitica e femminismo in un duplice senso: da un lato, infatti, si tratta di osservare la biopolitica con le lenti del femminismo, per metterne in luce aspetti che altrimenti rimarrebbero in ombra, dall’altro, viceversa, si osserva il femminismo a partire dalla biopolitica, per indagarne reazioni, resistenze e complicità.
Entrambi i termini che pervadono questo testo – femminismo e biopolitica – sono carichi di storia e di significati diversi. È bene precisare, perciò, che Dini utilizza femminismo con la consapevolezza della varietà di teorie e prospettive a cui rimanda, ma sceglie di fare riferimento soprattutto al “pensiero delle donne” e al “pensiero della differenza sessuale” che usa quasi come sinonimi per riferirsi alla libertà femminile che si inaugura asserendo che «ogni donna pensa», pur nell’unicità delle teorie e delle posizioni che scaturiscono da questo pensare.
Allo stesso modo anche biopolitica è ormai un termine saturo: nell’ultimo decennio si è affermato nel dibattito pubblico perdendo alcuni caratteri di specificità e finendo per indicare ogni momento in cui vita e politica si incontrano. Questo testo, però, affronta il tema della biopolitica a partire da un punto di vista molto preciso, che separa nettamente biopotere e potere sovrano, vedendo nella loro unificazione uno sguardo maschile che, non riconoscendo una frattura, rafforza il potere patriarcale. Al contrario, secondo Putino e Dini, la biopolitica sarebbe in relazione con una forma di potere materno, oblativo e di cura, di cui enfatizza e perverte molti dei tratti: «in questa chiave, della biopolitica in quanto cura, è possibile fornirne una lettura come derivazione dalla sfera delle competenze materne in opposizione al potere sovrano che rientra nell’ambito dell’ordine simbolico del padre (e si realizza nella sfera del diritto)» (p. 77).
La consapevolezza di questa derivazione materna del biopotere è un pensiero perturbante per il femminismo, ma proprio per questo è anche necessario indagarne a fondo le implicazioni.
Dini sviluppa questa indagine suddividendo il testo in tre parti: la prima intitolata La differenza bio-politica, la seconda Vita sacra e la terza Per una politica della vita materiale. La prima parte prende in esame la concezione della biopolitica di un’uguaglianza intesa come appartenenza dell’essere umano ad una specie; intesa in questo modo essa può essere vista come l’affermazione del sociale, in cui gioca un ruolo fondamentale più la norma che la legge. In questo quadro il femminismo svela l’astrattezza dell’universalismo e dell’uguaglianza che ne consegue: le donne mostrano la loro esclusione e tentano di sovvertirla, facendo dei tratti che le condannano ad essere fuori dalla scena politica degli elementi di valorizzazione – si pensi all’enfasi sulla maternità come ruolo politico che pervade le prese di parola delle donne nel XIX secolo. Questa strategia impiglia le donne in un paradosso doloroso – rivendicare l’inclusione proprio attraverso le forme grazie a cui si viene escluse – che viene scardinato dal femminismo della seconda ondata, capace, secondo Dini, di uscire da queste strette maglie grazie al pensiero della differenza.
Per mostrare questo movimento Dini sottolinea come la differenza sessuale sia da sempre presente nel pensiero occidentale: dapprima nella “retorica” della misoginia, poi come “metafora” utilizzata da tutti quei filosofi della differenza (vengono citati Derrida, Deleuze e Nancy) che fanno dell’essere donna un sinonimo del processo di decostruzione del logocentrismo.
Dini sottolinea come queste concezioni siano il cuore polemico della sovversione femminista, ribadendo che, al contrario, la differenza di cui parla il femminismo sia una differenza ancora tutta da realizzare e che emerge in diverse critiche mosse all’ordine simbolico del padre e al suo fondamento edipico. Inoltre, nel testo si mette in luce come questo gesto anti-edipico costituisca anche il punto di partenza per le teorie queer, quasi a suggerire un’alleanza con il femminismo della differenza spesso ritenuta impossibile nel dibattito italiano. Il pensiero della differenza femminista si caratterizza, in questo senso, per la consapevolezza della sessualità come di un luogo primario di potere spesso invisibile. Questa concezione, però, si intreccia con l’attenzione alla sessualità che caratterizza la biopolitica e che modifica la concezione della differenza in chiave biologica, mantenendo le differenze, ma nascondendone la dimensione di inclusione ed esclusione sotto una presunta naturalità. Proprio qui si mostra uno dei nodi del testo, che si interroga su come il femminismo possa reagire alla biopolitica pur condividendone alcuni luoghi: «in questa chiave Putino legge l’evento della libertà femminile all’epoca della biopolitica: sul piano propriamente biologico-politico, in cui la differenza funziona come segmentazione del continuum biologico e la differenza sessuale, insieme a quella etnica, dà corso a nuove gerarchie, impone funzioni, produce identità, si può sottrarre la teoria evoluzionista alle maglie del governo della specie e restituirla al rango di gai savoir» (p. 52).
La seconda parte del testo prende in esame il legame tra vita, sacro e politica, mostrando come una maggiore sacralità della vita corrisponda anche ad una sua maggiore esposizione ai rischi di morte: la tanatopolitica, infatti, non sarebbe altro che il reciproco della biopolitica. Dini passa in rassegna le teorie di Agamben, che legano biopolitica e sovranità, e quelle di Esposito, che enfatizzano la dimensione della comunità, per evidenziare come in entrambi si perda una specificità attribuita da Foucault alla biopolitica: la coimplicazione di questa con l’emergere della biologia come scienza, una convergenza non solo temporale, ma anche strutturale. Il testo poi analizza le riflessioni di Kristeva, Weil, Butler e Cavarero per mostrare modi diversi di illuminare aspetti diversi della nuda vita, del malheur o della vulnerabilità che caratterizzano il vivente e che possono ottenere come reazione due forme differenti di potere: quello sovrano basato sull’uccidibilità e il biopotere basato sulla cura. Ed è qui che si inseriscono le riflessioni di Putino sulla contiguità tra femminismo isterico e biopolitica a cui rispondere con la capacità di rimettere al centro il desiderio e l’eros, che permette una via d’uscita dall’amore come cura per aprire a pratiche differenti.
Questa invocazione a Eros ci introduce alla terza parte del libro, che approfondisce questo tema mettendo in luce come la biopolitica si caratterizzi per una forma di governo della specie che agisce tramite il desiderio e non attraverso la coercizione. In questo senso il femminismo è un luogo privilegiato, poiché allo stesso tempo spazio di possibile cattura, ma anche terreno di resistenza, grazie alla centralità che accorda al linguaggio, alla sessualità e al simbolico nella pratica e nella teoria politica. Ma perché la contiguità si trasformi in resistenza bisogna tenere presente che «nel momento in cui la governamentalità neoliberale espone il femminismo ad un pericolo insidioso perché, avendone assunto alcune istanze, rischia di neutralizzarne le pratiche e la presa teorica sul presente, occorre ritornare ai punti non assorbibili, non assimilabili, non addomesticabili del femminismo per rilanciarlo, e per smarcarsi in maniera chiara dalla convergenza con la traiettoria neoliberale» (p. 106).
Emerge, qui, un’ulteriore rischio: quello che il femminismo diventi strumento del neoliberismo, che si caratterizza per una costante valorizzazione delle soggettività e delle loro differenze.
Per scongiurare questo pericolo, Dini suggerisce di ripartire dalle zone d’ombra del neoliberismo, dal godimento che sfugge ad ogni logica prestazionale. Il testo riconosce la progressiva scomparsa della sessualità dal femminismo italiano, un movimento che troverebbe origine nella precauzione di non far coincidere politica delle donne e identità sessuale. Questa scomparsa, però, tende a rendere il femminismo stesso – forse sarebbe più corretto dire: una parte del femminismo – incapace di leggere in profondità l’attuale nesso tra potere e sessualità. Per reagire a questa incapacità La materiale vita ci spinge a tornare a domandarci cosa desideriamo, intendendo il desiderio come eccedenza e non come imperativo neoliberale al godimento. Si tratta, quindi, di un desiderio che non rimanda ad un’autenticità, ma ad una creatività del sé, ad una capacità di fare dell’etica una pratica.
Se il femminismo, quindi, può essere letto come una critica alla distinzione tra bios e zoè, che passa dalla messa in discussione della distinzione tra natura e cultura, Dini propone di stare nella contraddizione tra i due termini: una postura che potrebbe permettere di evitare le maglie strette dell’adesione totale alla tecnica o ai richiami arcaici all’autenticità. Alla fine del ricco viaggio che il testo propone, capace di una lucida analisi dei limiti del pensiero della differenza, rimane la consapevolezza che il femminismo non solo possa ancora essere un motore di resistenza, ma anzi, proprio per le sue contiguità con le forme di potere presenti, si riveli una pratica in grado di sovvertirne i meccanismi, mettendo al centro i corpi come luogo dell’inaspettato che sfugge le norme biopolitiche. Perché, però, questo sia possibile è necessario guardare ancora e di nuovo nell’abisso in cui si intrecciano tra femminismo e biopolitica: un gesto che ha poco di rassicurante ma può aprire a nuovi e imprevisti orizzonti.
Tristana Dini, La materiale vita. Biopolitica, vita sacra, differenza sessuale,
Mimesis, Milano, 2016, pp. 156
da About Gender Vol. 6 N° 11