15 Aprile 2023
Alias - Il Manifesto

«Testarde», lo sport estremo di essere donna

di Giorgio Vincenzi


Elvira Guerra, Ida Nomi, Marina Zanetti, Rosetta Gagliardi, Isaline Crivelli Massazza, Rosetta Pirola Mangiarotti, Hilde Prekop sono nomi che oggi non dicono molto. Eppure dai primi del Novecento e fino agli anni Quaranta hanno vinto tanto nello sport a livello nazionale e internazionale. Donne che hanno usato lo sport per rendersi più libere. A raccontare le storie di queste donne ci ha pensato Caterina Caparello nel libro Testarde. Storie di atlete italiane dimenticate (Ed. Caosfera, euro 14).

Caparello, perché testarde?

Sono atlete vissute in un periodo molto preciso, dai primi del Novecento agli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Di conseguenza ci troviamo davanti a delle donne che non avevano alcun tipo di diritto, ma solo moltissimi doveri. Tra questi, il dover essere collocate all’interno di ruoli obbligatori prestabiliti: mogli e madri esemplari. Il loro essere testarde, quindi, non nasce solo dalla voglia di «uscire dagli schemi» e di provare, per pochissimo tempo, ad alleggerire il peso della loro condizione, ma si rendono conto di come lo sport sia una piccola chiave che apre una porticina, quella di poter praticare ciò che amano: tirare di scherma, correre, giocare a tennis, nuotare, allenare, andare a cavallo o sciare. L’essere testarde non è altro che una consapevolezza di sé stesse e di poter essere di più.

Qual è l’esempio più eclatante? E quello al limite dell’eroismo?

Tutte queste atlete sono esempi eclatanti. Sicuramente c’è stata qualcuna più esposta e in prima linea delle altre come Marina Zanetti, la prima commissaria tecnica. Lei, che è stata velocista e cestista prima e allenatrice poi, è dovuta scendere a parecchi compromessi pur di salvare la Federazione atletica femminile che, nel 1929, sarebbe passata sotto l’egida della neonata Fidal (Federazione italiana di atletica leggera) inglobata nella sezione maschile e quindi destinata a sparire lentamente. Si assunse tante responsabilità, creò le cosiddette «Olimpiadi della Grazia» nel 1931, ovvero la manifestazione internazionale dedicata allo sport femminile – dove convocò anche Ondina Valla, prima medaglia d’oro italiana – per poi essere mandata via dalla Federazione nel 1933. Inoltre, non parlerei di eroismo ma, al contrario, di normalità. Tutte queste donne non fanno altro che cercare di rendere lo sport un bisogno naturale e normale, che va oltre la sola e propagandistica funzione agevolatrice del parto. Come scrive di suo pugno nel 1929 Isaline Crivelli Massazza, sciatrice e golfista, «lo sport per me fa parte dei doveri verso sé stessi».

Raccontare di loro non è solo un modo per tirarle fuori dall’oblio, ma anche dimostrare come tenacia e passione sono le chiavi dell’autodeterminazione…

L’autodeterminazione femminile è una lotta continua che si sta intraprendendo anche ai giorni nostri. È necessaria. La tenacia e la passione di queste atlete mostrano tanti aspetti della società in cui vivono. E spesso tenacia e passione non bastano. Accanto a loro ci sono infatti anche altre figure importanti: sorelle, fratelli, madri e padri che credono in loro e tifano per loro. Allo stesso tempo, non bisogna dimenticare il periodo storico in cui agiscono e soprattutto ciò che la società dell’epoca si aspetta da loro. Sicuramente non possono esimersi, ma riescono comunque a rendere lo sport un amore esclusivo.

Un esempio sono le piccole ginnaste pavesi…

Ho provato a raccontare la storia di queste dodici piccole atlete, dove la più giovane aveva solo undici anni, attraverso gli occhi di «mamma» Maria, la custode della palestra della Ginnastica Pavese. Ho immaginato quest’ultima, ex ginnasta anche lei, guidarle verso un traguardo storico: la vittoria della prima medaglia per le donne italiane, un argento, ad Amsterdam nel 1928.

Lei le definisce donne che hanno usato lo sport per rendersi più libere e diverse…

Assolutamente. Lo sport è un atto di libertà. La consapevolezza di riuscire a praticarlo, nonostante l’ipocrisia e la falsità di cui sono circondate, specie durante i momenti di vittoria in cui si ritrovavano a stringere mani e sorridere a persone che non le avevano mai minimamente considerate, se non delle semplicissime donne, è ciò che le rende anche diverse. Una diversità che riescono ad assaporare sul campo, perché si trovano quasi separate da quel loro mondo reale così sbagliato e chiuso. Un mondo che le vuole omologate e senza la possibilità di poter essere proprio libere e diverse. Praticare sport è il momento in cui si sentono delle persone, perché la società in sé le considera solo in un determinato modo e ruolo.

Il corpo delle donne è stato usato per tanti anni per limitare la loro voglia di esprimersi nello sport…

Limitarlo e, allo stesso tempo, esporlo. Come nel caso della nuotatrice Hilde Prekop, campionessa italiana e oro nel 1932. Di lei e del suo corpo se ne servì la propaganda fascista che, da un lato, la fotografava in costume da bagno, con le gambe in bella mostra e la didascalia incitante le donne a nuotare per aiutare la loro fertilità, dall’altro lato i quotidiani di stampo cattolico che la accusavano di mostrare troppo, e spesso, il suo corpo che doveva rimanere, invece, nascosto. Da qui, possiamo notare non solo una mercificazione, ma anche una strumentalizzazione che, ipocritamente, la portava a ritrovarsi in mezzo ai due fuochi. Dove la colpa rimaneva esclusivamente la sua.

Oggi le donne che fanno sport subiscono ancora gravi disparità di genere?

Basta la parola «professionismo». Come ho anche riportato nell’introduzione del libro, a febbraio 2022, per la prima volta, le calciatrici sono diventate «professioniste» di fronte alla legge, grazie anche alle battaglie della capitana della Nazionale italiana, Sara Gama, sempre in prima linea. Il mancato professionismo, a causa della legge 91 del 1981 (la cosiddetta legge sul professionismo sportivo), è ancora un grande ostacolo alla parità di genere nello sport. Per questa legge, tutte le atlete sono considerate delle «dilettanti» e ciò comporta una fortissima mancanza di quei diritti fondamentali che delle lavoratrici meriterebbero: pensione, maternità, sanità ecc. Perché queste donne lavorano. L’unica eccezione riguarda l’arruolamento nei gruppi sportivi militari previo concorso pubblico: le atlete come Sofia Goggia, facente parte delle Fiamme Gialle, sono giustamente tutelate e percepiscono uno stipendio. Ma le pallavoliste come Paola Egonu? Le cestiste come Cecilia Zandalasini? No, e sono anche considerate dalla legge delle dilettanti. Per le calciatrici il passo avanti è stato fatto, adesso mancano tutte le altre.


(Alias – Il Manifesto, 15 aprile 2023)

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