27 Marzo 2021
La Stampa - TuttoLibri

Un abito di organza rossa

di Andrea Cortellessa


Sinora conoscevamo Mariangela Mianiti come una delle più brave giornaliste italiane. Con una doppia vocazione: da un lato le sue inchieste, come Quindici giorni da cameriera o Una notte da entraîneuse, sono state fra le prime ad applicare tra noi il “metodo Wallraff” (dagli anni Settanta Günter Wallraff conduce inchieste “sotto copertura”: celebre il suo Faccia da turco, in cui fingendosi appunto turco lavorò a lungo da McDonald e alla Thyssen per poi denunciare le condizioni dei Gastarbeiter nella Germania di allora). Dall’altro, il titolo della rubrica di Mianiti sul “manifesto” è Habemus corpus: col filo della percezione e dell’identità fisica, corporale, delle questioni d’ogni giorno (eloquente quanto ironico il titolo di un altro suo libro-inchiesta, La vita Viagra).

Rispetto a questa doppia attitudine, la sorprendente opera narrativa cui ha dato il titolo Organsa – pubblicata da una sigla, quella storica del “Verri”, per vocazione attenta alla sperimentazione linguistica e formale – pare per un verso una conferma, per l’altro un contrappasso. Un contrappasso perché, al di là di tutti i travestimenti, a colpire è qui l’intensità dell’investimento bio-grafico: non so quanto sia una storia d’invenzione, ma certo Organsa disattende ogni convenzione e tran-tran del package romanzesco. Le si obietterà, per esempio, che non ha un finale: non sono concluse le vite che il libro racconta, non è definito il loro esempio. Ma non necessariamente avrà un seguito; a Mianiti non interessa la vita di chi dice «io», «l’Aurelia», quanto quella del personaggio che le racconta la sua storia: sua madre Luisa, anzi «la Luisa».

Già questo modo di chiamare i personaggi richiama l’altro e principale aspetto che conquista, di questo libro: la fragranza dell’oralità che lo intesse da cima a fondo. E che conferma a pieno, stavolta, la vocazione “corporale” di Mianiti. I personaggi sono definiti dal loro modo di parlare; memorabile, per esempio, il lessico famigliare e “transgenico” del padre: «Sercavo la Aurelia. Grasie e la mi scusi abòta se l’ho disturbéda. Grasie anmò e che la mi staga bene, veh». Questo veh «è un vezzo che la gente mette a ogni fine di frase per dire guarda un po’, stai attento, ricordati, veh».

È l’energia dell’errore ad animare il racconto. Che prende il titolo da una cliente della Luisa, la cui vocazione all’alta sartoria è stata conculcata, ma testarda propone i suoi estri anche a quella gente priva di vezzi: «Luisa g’ho da andare a un matrimonio. Ci ho portato questa organsa qui che mi piace abòta il colore. Guardi guardi che bel rosso». «Ma Gemma, l’organza rossa allarga molto». «E va ben, mo a me mi piase dli stesso». L’organsa è il tessuto di questa lingua straripante di umori: «un caos arduo da governare, ma pieno di colori e sorprese, come un fuoco d’artificio». Ed è questa, con rara costanza, la materia che incarna il “mondo sensibile” della narrazione: un po’, si parva licet, come quella di Proust secondo un maestro dimenticato della critica, Jean-Pierre Richard.

Siamo in un tempo imprecisato, a cavallo del Sessanta, ma in un territorio assai preciso: un minuscolo borgo della bassa parmigiana che ristagna quasi ancestrale. Volendo citare un talento paragonabile a quello di Mianiti, nella riproduzione dell’oralità, bisognerebbe tirare in ballo la scuola emiliana, appunto, dei Cornia e dei Nori; ma il suo mondo, a differenza del loro, non ha niente di simpaticamente stralunato, niente di umoristico. Nessun Eden pasoliniano, neppure; nessuna “umile Italia” fiera delle radici. È un piccolo mondo soffocante e crudele, invece, disegnato con precisione altrettanto crudele («Sono piccola, ma vedo tutto, anche quello che non dovrei vedere»: le descrizioni – come quelle à la Federigo Tozzi del macello del maiale o della castrazione del cappone – sono di un virtuosismo quasi da école du regard). La Luisa, che sarebbe curiosa del mondo (a parte sua figlia, solo lei non si esprime in dialetto), viene risucchiata indietro, dalla città e dalla modernità, da genitori tanto gretti quanto egoisti, da suo marito loro succube, dalle ripetute gravidanze. E così resta prigioniera dell’osteria che deve gestire e del “casone” annesso, prigione-labirinto dove si accumula tutto quello che, chi sa mai, magari un giorno le darà la libertà che la terrorizza (finirà per collezionare cinque lavatrici).

Da questa vita strozzata fantastica di salvarla sua figlia: «Vorrei essere ricca per regalarle le cure che non ha mai potuto concedersi, i viaggi e le vacanze che non ha mai fatto. E invece scappo». Alla fine scapperà davvero, l’Aurelia, “tradendo” insieme sua madre e le proprie viscere linguistiche: si guadagnerà da vivere scrivendo – ovviamente in perfetto italiano. Ma sarà proprio questa lingua a consentirle, a posteriori, di redimere l’esistenza della donna che a quella lingua-corpo ha dato la luce.


(Un abito di organza rossa allarga molto ma alla cliente della Luisa “piase dli stesso”, La Stampa – TuttoLibri, 27 marzo 2021)

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