8 Marzo 2022
il manifesto

Un fuori campo attivo differente e libero

di Liliana Rampello


Con Lo spazio delle donne (Einaudi, pp. 128, euro 12) Daniela Brogi ha il merito di fare chiarezza in un campo linguistico e politico molto disordinato, quello della relazione e del conflitto fra i sessi. L’autrice è docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università per Stranieri di Siena e specialista del Manzoni, sul quale ha scritto il notevole Un romanzo per gli occhi. Manzoni, Caravaggio e la fabbrica del realismo (Carocci 2018), che cito perché fa intuire come nel suo lavoro, ad ampliare significativamente il campo interpretativo, convergano sempre anche i Visual Studies. Lo spazio delle donne arriva tra noi come un libro necessario, di scrittura limpida e appassionata, in grado di rivolgersi a un pubblico ampio con intelligenza, serietà di studio e l’autorevolezza di un percorso condiviso ormai con tante e – vorrei dire – tanti, ma è più realistico dire alcuni.

Possiamo tagliare il testo seguendo due importanti affermazioni, una di ordine concettuale e una di ordine metodologico. Daniela Brogi assume, giustamente, che il linguaggio sia «una forma di esperienza e di sentimento del mondo» e che per rendere giustizia a questa verità si debba lavorare alla composizione di un «fuori campo attivo» rispetto a quella «cultura patriarcale e monologica» che ha tenuto in un «fuori campo passivo», ossia inerte e invisibile, i vissuti, i saperi, il genio e le creazioni delle donne, letteralmente cancellandole o oscurandole. L’autrice è molto attenta, sia chiaro, a non cadere in pericolose generalizzazioni, relative a un indefinito «tutti gli uomini», ma è ben consapevole invece di un senso comune trasversale che va smontato con coraggio e precisione, perché induce le donne alla subalternità.

Senza pregiudizi favorevoli per quest’ultime: della necessità di questa postura, infatti, c’è tradizione esplicita, per dirla volando, già nella Stanza tutta per sé di Virginia Woolf, del 1929, che ci aveva raccontato delle donne «specchio», e ancora nel Secondo sesso di Simone de Beauvoir del 1949, con la riflessione sulle «donne-alibi». Subito, in queste ritagliate affermazioni, sono in gioco il linguaggio e lo sguardo, per la prospettiva stessa in cui lo sguardo fuori campo intercetta il linguaggio nella forma dell’esperienza.

Nel riscattare la parola femminismo (riscatto più che benvenuto), Daniela Brogi compie una doppia importante operazione: non la oppone a maschilismo, e non la inchina a quel «paternalismo benevolo» che confina le donne in uno spazio di minorità, ma la riformula consapevole di quanto proprio il femminismo sia «un capitolo fondamentale della storia della modernità, oltre che un capitale culturale enorme». Ed è questo il passo avanti che l’autrice ci invita a fare, la sfida che non si può eludere se guardiamo al futuro, se ascoltiamo con attenzione la voce delle giovani generazioni che si affacciano sulla scena della nostra storia.

Il termine cruciale del saggio, spazio, viene articolato in cinque capitoli, declinati secondo quella lente del fuori campo utile a non irrigidire le maglie del pensiero, a far sì che la «messa a fuoco dinamica» qui proposta generi un nuovo sguardo sulla realtà e la interroghi dialetticamente intorno «a ciò che è visibile e riconoscibile e ciò che invece è invisibile, ma tuttavia implicato». Questa interrogazione non si dà confini disciplinari, ha un respiro ampio, può avvalersi di una pagina letteraria, teatrale, psicoanalitica, filosofica, politica, rintracciata con amore curioso, o di un film, di una performance, in una scorribanda che mette a nudo un Novecento spesso in ombra. Muovendo in direzioni varie, note e meno note, scuotendo le gerarchie che indicano un alto e basso la cui misura neutra affiora appena grattiamo un po’ la superficie del già pensato, Daniela Brogi convoca per noi Grazia Deledda e Ada Negri, Virginia Woolf e Carla Lonzi, Karen Horney e Helena Janeczek, Marina Abramovic e Alice Munro, Toni Morrison e Margaret Atwood, Elsa Morante e Franca Rame e altre e altri… fino a farci immergere e poi riemergere dall’interno di una cultura dello stupro che non potrà mai dimenticare il delitto del Circeo.

La lente di questo telescopio, nell’illuminare l’invisibile della scena, mette ora a fuoco quanto sia abitata da silenzi, omertà, omissioni, vere e proprie mutilazioni di un sapere che si possa affermare come condiviso. E ci regala un’altra direzione di ricerca: è indubbio che l’intera tradizione maschile, quella stessa che ha fatto fuori le donne, va conosciuta, ma è altrettanto necessario ridisegnarla secondo «nuovi effetti di composizione», in una prospettiva «mobile e multifocale» dei nostri stessi saperi. Tutta la grande arte sa infatti trasformare «anche l’orrore in bellezza formale ed esperienza di verità», e dunque va ri-guardata accendendo la luce sui troppi angoli bui della storia delle donne. Non si tratta di aggiungere qua e là un nome, di giocare l’eccellenza femminile di alcune contro le altre, né di tollerare l’emersione di un mondo «inabissato»; si tratta, questo l’invito garbato, ma netto e severo, di combattere senza sconti contro ogni forma di retorica sessista, per esempio in tema di reputazione e «merito» femminili, e di ribellarsi a traduzioni in aneddotica di trame genealogiche di «relazioni e reciprocità» fra donne. Il famoso merito, sulla bocca di troppi, non è mai richiamato, né invocato quando si tratta di uomini (e ce ne è una valanga che occupa posti di prestigio e di potere non si sa a che titolo), ma sempre invece indicato come decisivo da un «sessismo difensivo» che lo trasforma «in un valore assoluto e separato dalla storia».

L’intreccio è ben altro, come mostra la timeline sintetica ma essenziale di una serie di date utili a ogni «ricostruzione critica seria» della situazione italiana. È quella che va dal 1946, voto alle donne, fino al 1996, quando lo stupro diventa un crimine contro la persona e non contro la morale: lungo questa linea, altre conquiste, accesso alla magistratura, asili nido, divorzio, aborto, riforma del diritto di famiglia… tappe, lo voglio ricordare, che hanno visto impegnate migliaia di donne, democristiane, socialiste, comuniste (da Rosy Bindi a Giglia Tedesco, Marisa Rodano e Livia Turco ad esempio) e prodotto un’intensa discussione tra femministe. Non una sola donna di destra al nostro fianco nella «rivoluzione gentile», né allora né ora, a proposito dell’altra moda mainstream sul loro presunto protagonismo (e non si può che applaudire a queste righe: «Lo spazio delle donne, come luogo e cultura della diversità, non è né può mai essere uno spazio contiguo a valori a suo tempo affermati dal fascismo»).

I passi del libro attraversano molte linee di confine di un Novecento che «è doppiamente il secolo della paura delle donne. La paura che si è fatta alle donne; e quella che le donne hanno fatto, man mano che diventavano sempre più soggetti della storia». Muovono dallo spazio storico «come destino imposto» (con le sue «figure emblematiche: il recinto, l’abisso, l’interstizio, la mappa, il fuori campo attivo»), riconoscono e rivelano nel disprezzo verso le donne non una «conseguenza del maschilismo» ma la sua secolare «condizione di esistenza», sottolineano il gender gap ancora alto, parlano dello spinoso tema dello «specifico artistico femminile». Qui il salto è decisivo: le «forme» non sono «banali involucri», se donne e uomini fanno una diversa esperienza del mondo, se abitano «in maniera diversa la vita», differenti saranno voce, immaginazione e stile della loro arte.

Quando Doris Lessing, nel discorso tenuto in occasione del Nobel per la Letteratura, ricorda la necessità, per scrivere, di «uno spazio vuoto, che ti circonda», la mente vola al salotto di Jane Austen, alla stanza di Virginia Woolf e alle mille altre simboliche stanze che in tante hanno cercato per sé, quelle dove hanno disfatto il mondo che le teneva chiuse all’interno, spalancando porte e finestre per farne un altro, differente e libero, per donne e uomini. Che Daniela Brogi avverte con garbo e coraggio: «ignorare tutto questo è ormai semplicemente incultura».


(il manifesto, 8 marzo 2022)

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