di Alessandra Pigliaru
Il compito di colei o colui che scrive sembra consistere nel «diventare vedenti». Così credeva Ingeborg Bachmann quando, nel corpo a corpo con il dolore dell’ingiustizia, considerava l’incontro con la verità dell’invisibile. Esiste però un territorio liminare, governato e complicato dalle piccole cose, in cui la scrittura è obbligata a farsi asciutta, puntuale e priva di pietà perché deve decostruire le menzogne costruite dalla Storia. Ciò che accade si sostanzia così in un fatto che si ha la responsabilità di raccontare così com’è – mondando l’elemento intimistico per renderlo il più rispondente alla veridicità degli eventi. È anche questa una strada per arrivare alla consapevolezza di «farsi vedenti», e infine dire «mi si sono aperti gli occhi».
Il compito di colei o colui che scrive sembra consistere nel «diventare vedenti». Così credeva Ingeborg Bachmann quando, nel corpo a corpo con il dolore dell’ingiustizia, considerava l’incontro con la verità dell’invisibile. Esiste però un territorio liminare, governato e complicato dalle piccole cose, in cui la scrittura è obbligata a farsi asciutta, puntuale e priva di pietà perché deve decostruire le menzogne costruite dalla Storia. Ciò che accade si sostanzia così in un fatto che si ha la responsabilità di raccontare così com’è – mondando l’elemento intimistico per renderlo il più rispondente alla veridicità degli eventi. È anche questa una strada per arrivare alla consapevolezza di «farsi vedenti», e infine dire «mi si sono aperti gli occhi».
Forse è così che Erika Mann scrive i dieci racconti contenuti nell’importante volume The Lights go down (Farrar & Rinehart, New York/Toronto 1940), ora finalmente pubblicato in Italia per le cure di Agnese Grieco con il titolo Quando si spengono le luci. Storie dal Terzo Reich (Il Saggiatore, pp. 272, euro 19,50). Raccontare la vicenda biografica e intellettuale di Erika Mann, scrittrice, performer e conferenziera di fama internazionale, equivale a percorrere gli anni bui di una storia ancora scottante: quella della follia nazista ma anche dell’impegno politico di numerosi intellettuali contro la tracotanza di un potere che, innervatosi nella società tedesca, aveva conosciuto numerose connivenze nel resto del mondo.
Tedesca di nascita, Erika ebbe come padre l’illustre – e ingombrante – Thomas. Proprio con lui e la famiglia – tra gli altri si ricorda il fratello Klaus, adorato – si trasferisce negli Stati Uniti. È il 1937 e dall’esilio scrive le storie raccontate in Quando si spengono le luci. Tutte realmente accadute, sono state segnalate alla scrittrice che ha modificato i nomi e alcuni dettagli per evitare ritorsioni nei confronti delle e dei protagonisti.
I racconti, tra il diario di viaggio e la cronaca, sono esemplari e si dipanano in una piccola cittadina bavarese tra il 1936 e il 1938. Spigolosi e a tratti cinicamente ironici, proprio come appare la stessa Erika in alcune fotografie che la ritraggono, i dieci racconti descrivono la vita quotidiana della classe media tedesca in relazione al Terzo Reich. Per stessa ammissione dell’autrice, non si tratta di tratteggiare le vicende di criminali efferati né di eroi buoni e puri di cuore. Erika Mann mantiene piuttosto il controllo di passioni e impulsi caotici e si fa regista di minute faccende senza voce. Come nota sapientemente Agnese Grieco, che cuce una postfazione tanto preziosa quanto generosa, la scrittura di Mann risente della sua formazione cinematografica e teatrale tesa alla costruzione di una vera e propria scena della visione. Come a dire che quella possibilità di spalancare gli occhi – per chi ha colto l’assurdità della sopraffazione – in Erika Mann diviene una lama lucida e calibrata che allestisce il senso dell’umana e fragile condizione.
La piena conduzione da parte dell’occhio registico-scrittorio è la modalità scelta per separarsi dall’eccesso affettivo, e trasformarsi in ospiti di un paese straniero che si guarda per la prima volta e senza pregiudizi. I protagonisti e le protagoniste delle storie non possono che essere gente comune: commercianti e aspiranti maestre, piccoli imprenditori, burocrati e sacerdoti, così come contadini, madri e professori. In ciascuna e ciascuno di loro la gratitudine nei confronti dello Stato tedesco è variamente presente e, al contempo, deflagra nell’incomprensibilità quando la si misura con la propria coscienza. Erika Mann divide e monda la narrazione per riconsegnare un ritratto reportagistico senza sconti. Si potrebbe parlare di banalità del male, se non fosse che quel male rappresentato dal totalitarismo si lega a una coazione pervasiva di ogni comune sentire. La paura, ma anche la tonalità di un consenso piegato alla propaganda, non conosce scampo. Se alcuni trovano il modo per salvarsi, fosse anche solo con l’uso della ragionevolezza, altri risultano affidarsi a una forma destinale vittimistica. Difficile uscirne vivi. «Solo in rari momenti di chiarezza che mutava in spavento si ponevano la domanda riguardo a chi avesse la responsabilità di tutto ciò. Perché, si chiedevano allora, perché seguiamo con cieca ubbidienza un destino chiamato Adolf Hitler? Perché noi tutti ubbidiamo?». L’ignavia ineluttabile fa il resto.
Ma di queste esistenze apparentemente ordinarie che non sempre hanno avuto parole per nominare l’orrore, la scrittrice racconta il passo a venire. Il Terzo Reich è così metafora dell’inerziale soggiogamento dinanzi al mostruoso che comunque non smette di interrogare il nucleo rivoltoso di se stessi. Sottolinea infatti Agnese Grieco, «alle spalle di tutte le figure narrate dalla Mann, la domanda che cosa fare? risuona centrale, ineludibile: un appello alla scelta di un atteggiamento responsabile».
Forse una risposta efficace una volta per tutte non può essere data, proprio per questo il monito sul che cosa fare? deve avere la forza del ritorno al presente, nell’attenzione costante. In special modo dinanzi a ogni forma di oppressione o semplicemente di fronte alla meschinità di uno Stato che pretenda di barattare il proprio bene con la libertà di uomini e donne.
Tedesca di nascita, Erika ebbe come padre l’illustre – e ingombrante – Thomas. Proprio con lui e la famiglia – tra gli altri si ricorda il fratello Klaus, adorato – si trasferisce negli Stati Uniti. È il 1937 e dall’esilio scrive le storie raccontate in Quando si spengono le luci. Tutte realmente accadute, sono state segnalate alla scrittrice che ha modificato i nomi e alcuni dettagli per evitare ritorsioni nei confronti delle e dei protagonisti.
I racconti, tra il diario di viaggio e la cronaca, sono esemplari e si dipanano in una piccola cittadina bavarese tra il 1936 e il 1938. Spigolosi e a tratti cinicamente ironici, proprio come appare la stessa Erika in alcune fotografie che la ritraggono, i dieci racconti descrivono la vita quotidiana della classe media tedesca in relazione al Terzo Reich. Per stessa ammissione dell’autrice, non si tratta di tratteggiare le vicende di criminali efferati né di eroi buoni e puri di cuore. Erika Mann mantiene piuttosto il controllo di passioni e impulsi caotici e si fa regista di minute faccende senza voce. Come nota sapientemente Agnese Grieco, che cuce una postfazione tanto preziosa quanto generosa, la scrittura di Mann risente della sua formazione cinematografica e teatrale tesa alla costruzione di una vera e propria scena della visione. Come a dire che quella possibilità di spalancare gli occhi – per chi ha colto l’assurdità della sopraffazione – in Erika Mann diviene una lama lucida e calibrata che allestisce il senso dell’umana e fragile condizione.
La piena conduzione da parte dell’occhio registico-scrittorio è la modalità scelta per separarsi dall’eccesso affettivo, e trasformarsi in ospiti di un paese straniero che si guarda per la prima volta e senza pregiudizi. I protagonisti e le protagoniste delle storie non possono che essere gente comune: commercianti e aspiranti maestre, piccoli imprenditori, burocrati e sacerdoti, così come contadini, madri e professori. In ciascuna e ciascuno di loro la gratitudine nei confronti dello Stato tedesco è variamente presente e, al contempo, deflagra nell’incomprensibilità quando la si misura con la propria coscienza. Erika Mann divide e monda la narrazione per riconsegnare un ritratto reportagistico senza sconti. Si potrebbe parlare di banalità del male, se non fosse che quel male rappresentato dal totalitarismo si lega a una coazione pervasiva di ogni comune sentire. La paura, ma anche la tonalità di un consenso piegato alla propaganda, non conosce scampo. Se alcuni trovano il modo per salvarsi, fosse anche solo con l’uso della ragionevolezza, altri risultano affidarsi a una forma destinale vittimistica. Difficile uscirne vivi. «Solo in rari momenti di chiarezza che mutava in spavento si ponevano la domanda riguardo a chi avesse la responsabilità di tutto ciò. Perché, si chiedevano allora, perché seguiamo con cieca ubbidienza un destino chiamato Adolf Hitler? Perché noi tutti ubbidiamo?». L’ignavia ineluttabile fa il resto.
Ma di queste esistenze apparentemente ordinarie che non sempre hanno avuto parole per nominare l’orrore, la scrittrice racconta il passo a venire. Il Terzo Reich è così metafora dell’inerziale soggiogamento dinanzi al mostruoso che comunque non smette di interrogare il nucleo rivoltoso di se stessi. Sottolinea infatti Agnese Grieco, «alle spalle di tutte le figure narrate dalla Mann, la domanda che cosa fare? risuona centrale, ineludibile: un appello alla scelta di un atteggiamento responsabile».
Forse una risposta efficace una volta per tutte non può essere data, proprio per questo il monito sul che cosa fare? deve avere la forza del ritorno al presente, nell’attenzione costante. In special modo dinanzi a ogni forma di oppressione o semplicemente di fronte alla meschinità di uno Stato che pretenda di barattare il proprio bene con la libertà di uomini e donne.