17 Novembre 2005
il manifesto

Una definitiva messa a fuoco di Dino Campana

Nel volume curato da Sebastiano Vassalli per la Bur, l’opera del poeta e il carteggio integrale con Sibilla Aleramo
Per rileggere la sua biografia senza falsi pudori, le chiavi vanno cercate nel ruolo della famiglia, che lo volle in manicomio, e nella sifilide che per circa trent’anni gli avvelenò il sangue portandolo lentamente alla morte
Attilio Lolini

Con il suo primo libro su Dino Campana, uscito sotto il titolo La notte della cometa (Einaudi) Sebastiano Vassalli suscitò polemiche e discussioni a non finire, aprendo così il caso relativo all’autore dei Canti orfici; un caso che oggi pare chiudersi definitivamente grazie al volume in cui sono raccolte tutte le sue opere, anch’esso curato da Vassalli e titolato Dino Campana. Un po’ del mio sangue (Bur, pagine 300, E. 9). Al suo interno si trovano, oltre ai Canti, le Poesie sparse, Il Canto proletario italo-francese (che rimane la più bella poesia patriottica della grande guerra), il carteggio completo con la scrittrice Sibilla Aleramo e, soprattutto, una introduzione seguita da una nota biografica che fa piena luce sulla vita del poeta avvolta da un velo di menzogne: fu, in parte, lo stesso Campana a alimentarle, quando in manicomio, per levarsi di torno gli orrendi familiari e lo psichiatra Pariani, suo torturatore e biografo di «geni» folli, raccontò storie a non finire, alcune delle quali decisamente incredibili, e tuttavia prese sul serio dalla critica ufficiale del tempo. La vita di Campana è tutta riassunta in un verso di Walt Whitman che lui stesso mise, come epigrafe, al suo capolavoro: «Essi erano tutti stracciati e coperti dal sangue del fanciullo»: essi -scrive Vassalli – furono i compaesani, i letterati dell’epoca, gli psichiatri e soprattutto i genitori, in modo particolare la madre, che tentarono almeno due volte (riuscendoci) di togliersi dai piedi il figlio «matto». Quando raggiunse la maggiore età lo fecero rinchiudere in manicomio perché ci restasse fino alla morte e, una volta dimesso, lo «spedirono» come un pacco a Buenos Aires, con un passaporto che non gli consentiva il rientro. Ma Campana, dopo un mese, era di ritorno e vide riaprirsi le porte del manicomio di Castel Pulci. Quanto ai suoi compaesani, non fecero che perseguitarlo e così pure i letterati dell’epoca che, specie nel contesto del caffè le Giubbe Rosse, lo trattavano come un pezzente. C’erano tra loro Marinetti, con il suo insulso futurismo, il superbo Prezzolini, il superficiale Soffici e il superuomo Giovanni Papini. Gli psichiatri del manicomio di Castel Pulci, poi, usarono Campana per i loro esperimenti punitivi con l’elettricità: quando il poeta si definisce «l’uomo elettrico» si riferisce appunto alle «terapie» che lo «friggevano». Ogni tanto arrivava la madre, crudele e piagnucolosa, a controllare la salute del figlio e a verificare come questi avesse trovato, finalmente, il posto giusto dove stare.

Pur non avendo goduto, da vivo, di nessun riconoscimento, Dino Campana resta, tra i poeti italiani, uno dei più letti, amati e ristampati del `900: nei suoi versi – scrive Vassalli – c’è qualcosa che dovette scandalizzare i suoi contemporanei, comunicando loro un’idea di grandezza e di forza di cui non sapevano farsi una ragione. Parole semplici e semplici impressioni, messe là in modo apparentemente casuale.

Come poteva questa poesia, si chiedevano i più avvertiti e gelosi letterati del tempo, avere così tanto potere evocativo, una tale suggestione, una siffatta armonia? E risposero affermando che non si trattava di una scrittura seria, confortati dallo stesso Campana che provvedeva a avvalorare l’arcigna tesi, dicendo che i suoi versi sarebbero apparsi a qualcuno «robetta da fiera». Pochissimi, se si esclude Emilio Cecchi, lo capirono e il «Mat Campena» – come lo chiamavano a Marradi – diventato adulto, si avviò, inesorabilmente, verso Castel Pulci.

Nel 1915 contrasse una vera malattia: aveva il viso semiparalizzato, conseguenza di un male probabilmente trasmesso da una (o da più) di quelle «troie» con gli occhi ferrigni di cui parla nelle sue poesie. Negata dalla famiglia, che non intendeva compromettere la sua rispettabilità ammettendo un morbo tanto infamante, la malattia di Campana era in effetti la silifide, ma venne spacciata per una nefrite, nonostante i sintomi inequivocabili descritti in molte lettere. Da 1915 al 1932, anno della morte, la storia del poeta coincide con il decorso della sua malattia, che gli distrusse il sistema nervoso e gli avvelenò il sangue in maniera lenta ma inesorabile. Per rileggere, senza falsi pudori, la sua biografia Vassalli dice che proprio nella famiglia e nella sifilide vanno ricercate le chiavi. Era il 1915 e aveva trent’anni quando contrasse la malattia, e sebbene non ci siano cartelle cliniche a attestarla, tuttavia essa è accertata dal carteggio con Sibilla Aleramo, che ne venne contagiata e dovette curarsene per quasi un anno. L’incontro tra i due avvenne, nel 1916, sotto il segno della follia e dell’ossessione: per il poeta Sibilla Aleramo fu l’unico amore della vita, mentre per lei rappresentò una specie di incubo: lui la inseguiva, la perseguitava e lei fuggiva. Riuscì a liberarsi di Campana soltanto a ottantadue anni, quando pubblicò il suo carteggio con lui, che il libro curato da Sebastiano Vassalli riproduce integralmente per la prima volta. Se ne deduce che il rapporto amoroso che legò Campana alla Aleramo fu ben diverso da quello descritto dalle biografie ufficiali e dagli sdolcinati film sulla sua vita: un rapporto violento, fitto di liti e di sfuriate ma dotato di una sua grandezza.

Per colmo di sventura, contribuirono a nuocergli anche coloro che pure gli volevano bene: l’editore Vallecchi nel 1928 ripubblicò i Canti orfici ripulendoli da tutto ciò che gli pareva potesse risultare sconveniente all’immagine di un poeta che si profilava tra i grandi del suo tempo; per parte sua, Enrico Falqui, quando pubblicò gli inediti, si convinse di doverli correggere e sfumare.

Ricostruita da Vassalli dopo un lavoro durato quasi un trentennio, la breve e terribile vita del poeta marradese riacquista la sua «dignità» contro l’opinione di coloro che ritenevano fosse afflitto da una specie di romantica follia. Disse Campana allo «psichiatra» Pariani: «Mi chiamo Dino, come Dino mi chiamo Edison. Posso vivere anche senza mangiare, sono elettrico…»

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