Ancora un Nobel politically correct. Premiando l’autrice del «Taccuino d’oro», l’Accademia di Svezia ha voluto riconoscere «lo scetticismo e la passione» con cui Doris Lessing ha raccontato l’epopea dell’esperienza femminile. Nell’arco di oltre mezzo secolo ha scritto diverse decine di opere tra narrativa e saggistica
Maria Antonietta Saracino
In esergo, sulla pagina bianca che precede l’inizio del suo primo romanzo, una frase anonima recita: «È dai falliti e dagli sconfitti di una civiltà che se ne possono meglio giudicare le debolezze». Era il 1949. Con il manoscritto di quel romanzo, L’erba canta, sotto il braccio, studi da autodidatta, una esperienza di lavoro come centralinista, due matrimoni falliti e tre figli alle spalle, Doris Lessing – nata Tyler in Persia, nel 1919 – lasciava la Rhodesia del sud, oggi Zimbabwe, nella quale aveva trascorso trent’anni, per approdare a Londra dove tuttora vive. Si lasciava dietro i due figli avuti dal primo marito (il terzo figlio lo avrebbe portato con sé) e i ricordi della famiglia di origine – emigrata in quella parte di mondo dopo la prima guerra mondiale – impoverita e sconfitta: il padre mutilato di una gamba per colpa di una mina, la madre delusa da una vita che non aveva scelto.
Scetticismo e passione
Insieme agli anni trascorsi in una fattoria nel veld, Lessing lasciava anche la fase dell’impegno politico, cui proprio in Rhodesia si era intensamente dedicata. Dell’Africa, osservatorio privilegiato di alcune delle più grandi follie dei nostri tempi (colonialismo, razzismo, violenza, guerre), dirà che è stata il più grande dono che la vita le abbia fatto, a quel mondo insistentemente tornando in tanti suoi romanzi. Con lo stesso sguardo lucido e attento, che da allora costantemente la accompagna e che proprio in quel contesto aveva preso forma, osserverà la vita delle donne, raccontata fin dal primo romanzo, e nei molti che sarebbero seguiti, senza enfasi o retorica. Sarà questo sguardo, grazie al quale intere generazioni si sono riconosciute nei suoi libri, a fornire la motivazione di questo Nobel per la letteratura, che in Lessing vede «l’autrice di un’epopea dell’esperienza femminile che con scetticismo, passione e forza visionaria ha sottoposto una civiltà divisa a un attento scrutinio».
Da L’erba canta (La Tartaruga), apparso a Londra nel 1950, a oggi, Doris Lessing ha presentato pressoché ogni anno un’opera di narrativa. Alla sua prosa lineare e solida, che richiama quella dei grandi narratori ottocenteschi, ha consegnato una ininterrotta serie di romanzi, ma anche di racconti brevi e novelle, tre opere teatrali e numerosi saggi e scritti di viaggio, tutti con un preciso taglio politico. È ad esempio a seguito della pubblicazione di uno di questi, Going Home, nel 1957, che verrà dichiarata persona non grata in Rhodesia, dove tornerà solo dopo l’indipendenza, nel 1981, esperienza questa riportata nel volume Sorriso africano. Quattro visite nello Zimbabwe, del 1992. E sarà tra i primi a scrivere con occhio fortemente critico della presenza occidentale in Afghanistan, dove si recò al seguito di un programma umanitario, in un prezioso libretto intitolato non a caso The Wind Blows Away Our Words, «Il vento soffia via le nostre parole», del 1987. Di politica e follia umana parlerà ancora nelle Massey Lectures, che tenne in Canada nel 1985, pubblicate con il titolo di Prisons We Choose To Live Inside (Le prigioni che abbiamo dentro. Cinque lezioni sulla libertà, Minimum Fax).
Ma soprattutto ha scritto di donne, guadagnandosi la mai accettata quanto superficiale etichetta di «scrittrice femminista», dando voce lungo un arco di oltre cinquant’anni ai più importanti momenti dell’esperienza femminile: dalla Mary Turner dell’Erba canta, nella quale traspone il personaggio di sua madre, sopraffatta da un’Africa che non capisce e che le fa paura, alla figura di Anna Wulf del Taccuino d’oro (1962), libro-culto di una generazione, dalle figure femminili che affollano i cinque corposi volumi della serie I figli della violenza, apparsi tra il 1966 e il ’75, a quelle, forse più inquietanti, del ciclo di fantascienza Canopus in Argos cui approda dopo un avvicinamento alla filosofia sufi. Ma anche la Harriet del Quinto figlio, del 1988, quintessenza della sposa felice, la cui vita viene sconvolta dalla nascita di un figlio difficile, un diverso, la cui esistenza ricadrà interamente sulle spalle della madre. O il personaggio della «brava terrorista», che dà il titolo all’omonimo romanzo e che si interroga sulla doppia vita di chi, dietro una esistenza apparentemente «normale», aveva scelto la militanza armata.
A Lessing si deve il merito di averci saputo rimandare lo sguardo sul mondo di una bambina di tre anni, lei stessa, nello struggente Sotto la pelle, primo di due volumi di una autobiografia che Lessing diede alle stampe nel 1994, a settantatré anni, rivendicando il diritto di raccontare la propria storia per impedire ad altri di farlo per lei. Il racconto è durissimo: il mondo non capisce i bambini e li condanna a un dolore che li accompagnerà nella vita adulta. Così è stato per lei, che – con la memoria di allora, vivida e impietosa – rivela il suo nocciolo di rancore verso la famiglia. Verso la madre, innanzitutto, tutta presa da se stessa, descritta con immutato risentimento a decenni dalla sua morte: a lei Lessing dedica nel 1986 una biografia dal titolo Impertinent Daughters. My Mother’s life, apparsa in italiano con il titolo Mia madre (Bollati Boringhieri). Di lei parla estesamente e ancora con acredine nei volumi della sua autobiografia, Sotto la pelle appunto e Camminando nell’ombra. Ma è dura anche nei confronti del padre, ritratto nella figura di Dick Turner, il colonizzatore povero e perdente dell’Erba canta, travolto dal sogno di una realizzazione economica che non arriverà mai.
Il valore della vecchiaia
Impietosa nei confronti della retorica della maternità, la smaschera parlando delle maternità sue, mai del tutto accettate. Che le hanno insegnato, dice, come l’affetto verso i bambini nulla abbia a che vedere, nella donna, con l’esperienza fisica dell’essere madre. Così è stato per lei che, non ancora trentenne, in Rhodesia, si fece sterilizzare. All’altro estremo della parabola umana, a Lessing si devono straordinari personaggi di donne anziane, come la indomita barbona del Diario di Jane Somers che non si lascia accudire per non consentire agli altri di sentirsi con la coscienza a posto. Un personaggio di grande forza che Judith Malina del Living Theatre ha portato sulle scene teatrali in un celebre monologo.
Le sue donne anziane rivendicano il diritto all’amore e all’erotismo, come accade alla protagonista sessantacinquenne di Amare, ancora, del 1996, turbata e incredula davanti a una ondata di emozioni che, per la prima volta dopo tanto tempo, ricomincia a provare quando si scopre innamorata di un uomo assai più giovane di lei. Sul tema dell’amore tra una donna anziana e un ragazzo poco più che adolescente, Doris Lessing torna, nel 2003, con il lungo racconto Le nonne, che dà il titolo all’omonimo volume (Feltrinelli), presentato dalla scrittrice al Festivaletteratura di Mantova del 2004.
Ideologie inaffidabili
Fragile nel fisico ma estremamente lucida, Doris Lessing si è presentata in quella occasione pronta a ragionare sul presente e sul passato, sulla stupidità degli uomini e sulla inaffidabilità delle ideologie, il suo costante pensiero di questi anni. Perché «in my extreme old age», ha detto, «mi rendo conto di aver vissuto momenti della storia che sembravano immortali. Ho visto il nazismo di Hitler e il fascismo di Mussolini, che sembravano destinati a durare mille anni. E il comunismo dell’Unione Sovietica, che si credeva non sarebbe finito mai. Ebbene tutto questo oggi non esiste più. E allora perché mi dovrei fidare delle ideologie?». Si è detta stanca, Doris Lessing, di vivere in un mondo che sembra avere perduto ogni centro di gravità; dove le donne di molti paesi occidentali non vogliono più fare figli, i giovani non trovano lavoro né casa, dove vecchi e bambini vivono una insostenibile condizione di incertezza.
Ma oggi, e ormai da tempo, è il pensiero della guerra a tormentarla, anzi delle molte guerre che il mondo si ostina a ignorare. Ne ha viste davvero tante, lei, nata nel 1919, prima fra tutte la Grande Guerra, il cui ricordo ha ossessionato la sua giovinezza. «La stupidità degli uomini è tale che nonostante tutto quello che abbiamo vissuto, non siamo riusciti a imparare dall’esperienza. La guerra porta solo distruzione e morte, e sono i più indifesi a pagarne il prezzo». Su questa mostruosità, aveva concluso la scrittrice in quella occasione, tutti dovremmo riflettere, se vogliamo che davvero le cose comincino a cambiare.