15 Marzo 2006
la Repubblica

Unica e sola Elizabeth

Nadia Fusini

Ci sono vari tipi di eremiti – stiliti, reclusi, pellegrini; tra gli altri, gli eremiti-poeti, che si isolano nella poesia, o meglio, che vanno verso la poesia come nel deserto, per ascoltare la voce autentica dell´Essere. Un poeta così è Elizabeth Bishop.
In un saggio che le dedicai ormai dieci anni fa – da molto tempo, confesso, le sono devota – le riconobbi la virtù della «reticenza»; ora sfoglio la nuova edizione, quasi completa, delle sue poesie uscita da Adelphi col titolo Miracolo a colazione (pagg. 288, euro 27,00) e l´occhio mi cade su un verso di Ai magazzini del pesce, splendido componimento in cui Elizabeth Bishop si paragona a una foca e come lei si qualifica «a believer in total immersion»; una creatura «credente nell´immersione totale». Per l´appunto.
Schiva, solitaria, timidissima, Elizabeth nasce ed è presto orfana di padre, la cui precoce morte la priva anche della madre, che per il dolore impazzisce. Morirà in un ospedale psichiatrico nel 1934, lo stesso anno in cui Elizabeth a New York conosce Marianne Moore, sua madrina poetica. Elizabeth ha ventitré anni e ha già scelto la poesia come la sua «chosen art»: avrebbe anche potuto scegliere la pittura, ma scelse la poesia. Però, poi, tentò di fare con le parole quel che si fa per lo più col pennello: descrizioni precise, dettagliate, incantate e incantevoli, di luoghi, animali, oggetti: un iceberg, una barca, un distributore…
Cominciò con «la carta geografica», dove lasciò emergere tra le terre e le acque e i continenti l´ombra di Terranova e il Labrador e la Norvegia. Poi proseguì con Parigi, quando nell´estate del ‘35 venne in Europa. Poi tra il ‘36 e il ‘37 fu la volta della Florida. Finché partì per il viaggio più lungo, in Brasile, dove restò per sedici anni, dal novembre 1951 al 1967, e scrisse Brasile e Arrivo a Santos. Tutti questi luoghi provò a dipingere in poesie dove le parole vogliono sollecitare l´occhio affinché veda, e spesso, per rappresentare un luogo, lo evocano attraverso un quadro, un´immagine; come accade in La grande crosta, o in Poesia. In Poesia Elizabeth è ormai tornata nel suo nord, dove l´aria è pulita e fredda; è a casa, ma è una casa ritrovata per l´appunto in un dipinto grande più o meno come un dollaro, e grazie a dei versi, che se parlano all´anima è perché stimolano l´emozione in virtù della sobrietà, rispettando il medium di ogni autentica meditazione, il silenzio.
Il viaggio la ricongiunge alla propria solitudine e la poesia al proprio silenzio. Elizabeth viaggia e scrive come chi non possiede nulla e di nulla si impossessa; semplicemente interroga.
Si capisce che le piace osservare spassionatamente quel che la circonda, non le piace abbellire alcunché a suon di metafore; vuole semmai raggiungere il paesaggio, o l´animale, o l´oggetto che ha di fronte, nel rispetto di una sola aura, quella del riserbo. Ma come si fa a toccare, senza afferrare? A comprendere, senza prendere? Lei lo sa fare. E´ la sua grandezza.
E´ anche la ragione per cui rimane sempre nuda. La sua modestia è tale che lei «si limita» a descrivere. Ma è chiaro che sa quali complessi legami la realtà intrattiene tra profondità e apparenza.
Ha la pulpilla di Vermeer, il cristallino di Vuillard. E legge Darwin. Se ha degli antenati in poesia sono i Metafisici del Seicento inglese. O Hopkins. C´è chi ha fatto il nome di Emily Dickinson. Più vicino, c´è Marianne Moore; con lei condivide il culto della precisione, l´eleganza ironica, ma su un registro espressivo del tutto diverso. E c´è Robert Lowell, da cui tutto la divide, eppure rispetta. Ma a ben vedere, è unica e sola. A conferma di quanto dichiarò proprio a Lowell: «Quando scriverai il mio epitaffio, dì che sono stata la persona più sola al mondo».
Tre teste e tre paia di mani hanno compiuto il Miracolo a colazione, una performance traduttoria che a me ha strappato più volte l´applauso. Anche perché quando ho visto che ben in tre traduttori di grande rispetto (Damiano Abeni, Riccardo Duranti, Ottavio Fatica) s´erano dedicati all´impresa, come avranno fatto a spartirsi la Bishop? ho pensato; e perché non mi dicono chi ha tradotto cosa? Poi leggendo ho capito che i tre traduttori si erano in effetti sciolti in uno, anzi si erano fatti una; erano diventati Elizabeth Bishop. Lo confesso: non credevo che si potesse andare tanto vicino al miracolo dell´incarnazione in italiano della lingua poetica di questa grandissima artista.
Certo, a volte avrei scelto diversamente… E´ naturale: la lingua della traduzione non ha la perentoria stabilità dell´originale, si potrebbe sempre fare in un altro modo… Ma ripeto, qui la Bishop rinasce italiana. Ed è un´emozione vera, come vera e nuova e viva è la lingua inventata per l´occasione: una lingua a fronte, che specchia in modo spavaldo e libero l´originale; gli sta a fronte e gli tiene testa e dimostra come la traduzione sia davvero fedele, quando è attiva, e non passiva. A volte i traduttori chiamano fedeltà la supina, rigida aderenza a un dettato, mentre la vera fedeltà si misura sull´audacia, sulla capacità, da parte del traduttore, di attraversare la metamorfosi che nel passaggio da una lingua all´altra si impone. E´ una graticola. Ci si può bruciare. Ci si può lasciare le penne. Ma se riesce…

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