21 Gennaio 2004

“VIta nella terra di latte e miele” di Manuela Dviri

Letizia Artoni

Manuela Dviri, autrice di Vita nella terra di latte e miele, è oggi una giornalista israeliana, ma è nata a Padova nel 1949 da famiglia ebraica e sionista. Nella metà degli anni sessanta decide di trasferirsi in Israele, dopo aver sposato Abraham Dviri un ragazzo israeliano “dall’aria tranquilla e buona, ma con le spalle muscolose e le mani forti” conosciuto sulla nave che la stava portando insieme ad altri ragazzi e ragazze da Napoli a Haifa.
Erano i figli e le figlie di agiate famiglie ebree italiane che partivano per il “classico” viaggio in Israele, entusiasti di poter conoscere questo paese “nuovo, giovane, fresco, tutto rivolto verso il futuro, la speranza”.
Qui l’aspettano tempi difficili, ma il coraggio non le manca. Sposata e giovane madre, con pochi soldi e il marito spesso al fronte, riesce a finire gli studi – l’ha promesso alla madre preoccupata di vederla partire con un uomo praticamente sconosciuto – e col tempo a vivere una buona vita. Il marito, ebreo ortodosso, è un avvocato divorzista, lei lavora presso un istituto di ricerca scientifica, i figli sono diventati grandi, la situazione politica non è ancora l’inferno di oggi.
Così fino alla morte del figlio più piccolo, Yoni, ucciso nel 1998 in Libano, dove era stato inviato con altri militari a difesa di un piccolo villaggio di confine…”Mamma” – mi aveva detto – “il comandante ci ha fatto vedere il villaggio di notte, tutte le luci erano accese, e ci ha detto che i bambini lì dormivano tranquilli grazie a noi”. Una scelta convinta quella di Yoni, una morte inutile, ingiustificata per lei che da quel momento, incapace di accettarla come semplice casualità, si impegna a chiederne conto e a testimoniare nel maggior numero di luoghi possibili l’assurdità di questa guerra e la necessità della pace.
E’ un libro corale. La scrittura non è sempre uguale. Si passa dal racconto, ai monologhi, ad alcune parti della pièce teatrale che Silvano Piccardi ha scritto insieme a lei e che Ottavia Piccolo sta interpretando. Alcune di queste testimonianze sono più vicine a noi per esperienza e sensibilità, come quella di Margherita, l’amica d’infanzia, quando ci racconta che cosa è stata per lei la morte di Yoni, altre sottolineano invece la diversità delle vite e del sentire, dell’autrice in primo luogo, e il fatto che per quanto informati, la distanza che ci separa è enorme. Il racconto, molto articolato, l’accorcia.
Andare di persona, come hanno fatto alcuni dei protagonisti, è forse il modo migliore per poter capire un po’ di più e meglio.

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