9 Marzo 2012
Alfabeta

“Voltando pagina. Saggi 1904-1941” di Liliana Rampello

Monica Farnetti

Virginia Woolf, Voltando pagina. Saggi 1904 – 1941, a cura di Liliana Rampello, Milano, Il Saggiatore, 2011, pp. 657, euro 29

Ci arriva dunque dal Laboratorio Rampello un terzo contributo che definisco senza indugio capitale in materia di studi woolfiani. Ricordo infatti l’edizione italiana, curata dalla studiosa, del ritratto a più voci Virginia Woolf fra i suoi contemporanei (Alinea 2001), sollecita convocazione di amici, parenti, amiche e amanti e rendiconto di una vita a partire non dalla morte ma dalla vita stessa della protagonista, dalla “molteplicità di un lungo agire ed essere dell’esistenza” (cito dalla quarta di copertina) e variopinta narrazione corale di quella “magnifica leggenda del Novecento” che chiamiamo Virginia Woolf. E ricordo poi la monografia Il canto del mondo reale. Virginia Woolf, la vita nella scrittura (Il Saggiatore 2005), approfondimento da parte di Rampello della sua relazione a 360 gradi con la scrittrice, affondo di mirabile precisione nelle ragioni e nel senso dell’opera di lei, e assestamento definitivo di quella posizione – già adombrata nel primo libro – che presume una Virginia Woolf innamorata della vita di cui è maestra, e la sua morte stessa come “faccenda d’amore, d’amore intenso per tutto ciò che la circonda” (p. 46). Un libro in cui la vecchia forma della biografia, onorata se non altro perché cara a Virginia, celebra i propri fasti e tocca la vetta delle proprie possibilità, dandosi tutta intera come proposta ermeneutica e tentativo, commovente e riuscitissimo, di interpretare un’esistenza umana.
Questo terzo contributo arriva puntuale, oltre che nel calendario dei diritti d’autore (nel 2011 scadevano, come sappiamo, i settant’anni dalla morte della scrittrice), anche nella cronologia personale di Liliana Rampello (2001 – 2005 – 2011 significa un libro pressoché ogni cinque anni); e arriva mirato e coerente, pronto a continuare e a integrare il percorso segnato fin qui mentre ci fa fare un passo ancora. Perché la natura dell’operazione – l’edizione di un’ampia e accurata selezione di saggi letterari – e l’angolatura scelta – Virginia Woolf saggista e, più vividamente, Virginia Woolf lettrice – permettono a Rampello, lo anticipo, di dissipare definitivamente le ombre luttuose che nel corso del Novecento si sono addensate sulla personalità della scrittrice con la luce radiosa della felicità della mente; di far prevalere sulla “scienza del lutto” (come pur splendidamente propone Nadia Fusini) la gaia scienza della percezione, della partecipazione e della relazione col mondo; di spiazzare infine dal suo trono “Dama Malinconia” (ancora Fusini) per far sedere al suo posto la Musa dell’Ironia o ancor meglio, come dirò, Sua Maestà l’Allegria. Ma procedo con ordine.
Questo libro a cui oggi facciamo festa è in realtà una festa per noi, e per almeno due validi motivi. Innanzitutto perché qualcuna (peraltro di estremamente affidabile) ha fatto al posto nostro e da par suo quanto desideravamo fosse fatto da un pezzo: una scelta e un montaggio intelligente e sensibile dell’enorme mole dei saggi di Virginia Woolf (sono innumerevoli, lo ricordiamo, le raccolte saggistiche in lingua inglese che vanno sotto il suo nome nonché le pagine dell’impresa da lei intitolata, con una delle sue magistrali metafore, The common reader, “il lettore, la lettrice, comune”, dove quel “comune” vale giorni di riflessione per arrivare a capire che indica ciascuno e ciascuna di noi), saggi composti secondo un criterio geniale (secondo cioè l’evoluzione della poetica woolfiana, tutta legata e insieme scandita dai grandi romanzi), tarati sulla base di traduzioni fra le più belle e incantevoli, e riuniti in un unico libro che ce li rende facilmente accessibili, meglio governabili e infinitamente più vicini.
La seconda buona ragione per festeggiare questo libro sta quindi nel fatto che tutta l’operazione è incentrata sul senso, l’importanza, il piacere nonché la vertigine della lettura. La situazione infatti è più o meno la seguente: a monte c’è Woolf che legge questo e quello; a ridosso c’è Rampello che legge Woolf che legge questo e quello; poi ci siamo noi che leggiamo Rampello che legge Woolf che legge questo e quello e così via, come fossimo in un racconto di Borges nel quale si finisce per non capire più chi legge chi e dove, o in una elettrizzante catena di Sant’Antonio che fa passare una febbre felice e contagiosa, o ancora in un incastro di scatole cinesi in cui ciò che trasversalmente ci unisce – leggere – è un’azione che si carica di ogni evenienza, e diventa la parte per il tutto del nostro stare al mondo con sensatezza e piacere. È questo, insomma, un inno alla lettura, a quell’azione cioè che garantisce il pensare e che già abbiamo imparato a riconoscere come gesto di resistenza e forma di sopravvivenza, e alla quale perciò era cosa dovuta rendere omaggio in un modo adeguato.
Autobiografia di una lettrice si intitola il saggio di prefazione di Liliana Rampello a questo volume. “Lettrice” la quale naturalmente è lei, Virginia Woolf, che attraverso il resoconto ordinato delle proprie letture dà conto di sé, della sua vita quotidiana e della sua vita intima, delle sue abitudini, passioni, idiosincrasie, predilezioni e fantasie, di tutto il suo modo insomma di stare al mondo mentre lo pensa. Ma “lettrice” che nondimeno e senz’altro è Liliana Rampello: non solo per quel suo modo esemplare di fare critica letteraria dando per acquisita la letteratura come operazione della vita stessa, che trova posto dentro di lei; ma anche per la sottile e importante sintonia che si instaura fra lei e la sua scrittrice, la loro palpabile affinità di vedute in fatto di testi, il loro evidente e fecondo coincidere nella posizione che scelgono per guardare alla vita. E “lettrice” che infine, per la proprietà transitiva, è anche e certamente ciascuna di noi.
Domandiamoci adesso qual è il risultato più importante, la cifra più smagliante di tutto il libro, il segno più profondo che lascia su di noi. È, a mio avviso, un segno che dipende dal definitivo assestarsi, al quale accennavo in apertura, della figura della Woolf sul piano della vitalità, sotto il riflettore di una luce positiva e sfolgorante, dunque dal suo configurarsi come vera e propria forma della felicità legata alla coscienza di esser viva e al fatto di poter leggere – come se leggere ed esser viva fossero per lei tutt’uno. Appoggiano su questa base le sue competenze più alte: l’affinamento supremo della percezione di ciò che le vive intorno e gliene trasmette la vibrazione, l’eccitazione, la commovente evidenza; l’ospitalità riservata all’ironia come forma di intelligenza, passo di lato e sguardo di sghembo sulle cose del mondo; la capacità infine di onorare l’esclusivo piacere che le procura la sua mente, quando le rende pensabili e dunque più vivibili, e non di rado anche risibili, le cose che accadono. Ne consegue una traboccante allegrezza, un’ondata di piacere che da lei viene verso di noi, una vera e propria arte della gioia legata al leggere, al pensare, allo scrivere che a contatto con questo libro si impara seduta stante, e che ci dice della lettura come vita e come misura della sua pienezza.
“Volevo scrivere sulla morte, ma la vita ha fatto irruzione come al solito” scriveva la Woolf in una pagina del 1922 del suo diario. “C’è che amo la vita, Londra, questo attimo di giugno”, ribadiva folgorata la signora Dalloway. Mentre Lily in Al faro gridava la sua gratitudine a chi le rivelava i “piccoli miracoli quotidiani, illuminazioni, fiammiferi accesi all’improvviso nel buio” in cui la vita sontuosamente le si manifestava. Era tutto pronto, direi, perché si levasse questa fiammata che Liliana Rampello ha attizzato, e si colmasse lo slancio, si spiccasse il volo verso quel cielo che con María Zambrano chiamo “allegria”.
In un saggio rimasto incompiuto, e di cui si dà conto e notizia in un saggio di Rosa Rius Gatell nel volume di studi zambraniani intitolato a La passività, a cura di Annarosa Buttarelli, Bruno Mondadori 2006 (da cui sparsamente cito), Zambrano sostiene che l’allegria è l’altro “polo”, assieme al dolore, della vita emotiva, una “dimora” in cui “accade sempre qualcosa di essenziale”, una “capacità […] di intensificare la nostra forza” e un “istante – al pari dell’antico e cruciale kairos – di fortuna e di rivelazione”. Il pensiero infatti, precisa, non si significa solo dolorosamente; può significarsi anche e ancor meglio tramite l’allegria giacché “l’allegria è ancora più profonda del dolore”. L’allegria è “creatrice”, trasformatrice, dotata di “meravigliosa potenzialità”; l’allegria è nientemeno che “passaggio […] ad una maggiore perfezione”, aumento di potenza, “transito a un grado superiore di realtà”.
Credo che questo pensiero nuovo, totalmente inatteso e a dir poco dirompente possa, fra le sue implicazioni, contemplare anche un modo soddisfacente di accostare il volume di cui stiamo parlando. Che è fatto per l’appunto di pagine piene di “allegria”, capaci di far sussultare di sorpresa e di piacere nel mostrare l’azione di questa energia un po’ in disuso. Sono scritte infatti in uno stato intenso e insieme leggero della mente, e collocano in pieno – e finalmente – la creatività e la sapienza femminile sotto il segno della positività del sentire. Se ne impara la vita attraverso uno scarto continuo e sorprendente del modo di accostarla: un movimento eccitante, di una precisione impertinente, e di una lievità che non si ritrae nemmeno dinnanzi alle cose gravi e solenni. Pagine che ci inducono quello di cui sono fatte, che ce lo insegnano facendocene fare esperienza, e ce lo indicano come la strada per una vera e propria riforma della mente. Mentre al contempo, contagiandoci dell’allegro morbo della lettura, confortano il nostro spirito e soprattutto migliorano il nostro umore.

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