16 Marzo 2022
Vanity Fair

Yasmina Reza: voglio una pura libertà

di Paolo Di Paolo


Se le chiedi come vive, da scrittrice, ciò che sta accadendo in Ucraina, e se ha qualche parola in più, ti ferma subito: «Tutti parlano. La mia voce sull’argomento è priva di competenza specifica, quindi inutile». Eppure, proprio gli occhi «tristi» di Putin lampeggiano nel suo nuovo romanzo, Serge (Adelphi).  
È la madre del protagonista a notarli nelle immagini televisive. Ora quegli occhi tristi (e forse inquietanti) sono al centro dei nostri pensieri. Forse solo la letteratura può scegliere di fermarsi su un dettaglio simile, cercare lo spazio – anche di fronte all’inaccettabile – per una considerazione così umana. D’altra parte, da narratrice e da drammaturga tradotta in oltre trenta lingue, Yasmina Reza – 62 anni, nata a Parigi, ma figlia di un ingegnere iraniano e di una violinista ungherese – ha sempre cercato una prospettiva non ovvia sul mondo. Un incontro fra vecchi amici che degenera per una discussione sull’arte contemporanea, nella sua pièce più famosa, Arte. Un incontro pacificatorio tra due coppie di genitori che invece diventa un massacro: Carnage, appunto, come nel film con Kate Winslet che Roman Polanski ha tratto dal testo di Reza. E ancora: prende un uomo politico che non ama, Nicolas Sarkozy, lo segue durante la campagna elettorale del 2007 e anziché scrivere un libro politico, scrive un libro su un uomo «che vuole fare concorrenza alla fuga del tempo». La sua intelligenza è corrosiva, ma sempre capace di pietà. Come dimostra nel nuovo romanzo: una fotografia di gruppo mossa, a tinte accese. L’immagine sfaccettata della «sgangherata baracca» che è una famiglia, qualunque famiglia.

Il dettaglio sugli occhi di Putin mi ha fatto ripensare a certe piccole rivelazioni dell’umore dell’ex presidente francese Sarkozy nelle pagine di L’alba, la sera o la notte: «Sotto i suoi lineamenti appaiono dolcezza e infanzia». 
«Mi commuove il fatto che lei abbia notato gli occhi tristi di Putin. È un dettaglio minuscolo nel libro ma in effetti è significativo. Qualche volta, ma non sempre, sul viso di una persona c’è qualcosa che contraddice l’immagine che questa persona dà di se stessa. Quando la personalità adulta è forte e sembra andare in senso opposto è destabilizzante vedere un rimasuglio d’infanzia, di solitudine o di dolcezza nel suo corpo o nel suo comportamento. Non so che cosa riveli esattamente, se non il grande mistero dell’esistenza. E cioè la materia stessa della letteratura».

Seguirebbe di nuovo la campagna presidenziale? Di Macron? O di Marine Le Pen? Oppure di Éric Zemmour? Le sembrano storie, facce interessanti?

«No. Ho avuto la fortuna di potere seguire una personalità ricca e sconcertante, e che somigliava a un personaggio che avrei potuto inventare io. È stato un anno straordinario e sarò per sempre grata a Sarkozy di aver acconsentito a questo ritratto senza ostacolarmi in alcun modo. I protagonisti di oggi non mi interessano. Non ho nessun punto di vista letterario su Macron».

Lei non ama rispondere a domande sull’attualità, ma il momento è eccezionale: una pandemia, una guerra… Come saremo, dopo? 
«Nel corso del Ventesimo secolo è completamente scomparso un mondo, quello che costituiva l’Europa. È scomparso anche, e per sempre, il mondo precedente alle rivoluzioni digitali. Andiamo verso qualcosa di disaggregato e sfocato, senza che questo qualcosa sia analizzabile perché la rapidità delle mutazioni confonde il pensiero. È un clima generale che non consente alcun ottimismo. In un certo senso il libro tradisce questa preoccupazione». 

Serge, il protagonista del romanzo, è in effetti un uomo preoccupato. Anche solo dalle fatiche della vita adulta. La sorella lo rimprovera perché è sempre sarcastico, lo trova «gonfio di acredine». Forse lo siamo un po’ tutti, soprattutto sui social. 
«Il contesto dei rimproveri che Nana muove a suo fratello è puramente personale. Gli rinfaccia di avere sulle persone uno sguardo altezzoso e beffardo. Ne deduce che è risentito. Qui un personaggio sviluppa la propria visione di un altro personaggio. Una visione puramente soggettiva, quindi, che il lettore ha il diritto di disapprovare o relativizzare. Peraltro Nana, per via dei suoi aspetti da brava cittadina, è il bersaglio dei fratelli. In Serge vedo più un ritratto dei rapporti fra fratelli che un’evocazione dei rapporti nei social media».

I suoi personaggi dicono spesso cose che non direbbero «in pubblico». Ma esiste qualcuno al mondo le cui conversazioni private resisterebbero alla verifica del politicamente corretto? 
«A me sembra che ai miei personaggi capiti spesso di sbarellare in pubblico. Intendo dire, in circostanze in cui l’intemperanza del linguaggio non sarebbe consentita. Non lo faccio per provocare ma perché lo richiede l’umore della situazione e perché questa è la natura delle persone che descrivo. Ci sono ben pochi saggi e moderati fra i miei personaggi. In realtà, quello che chiamiamo il “politicamente corretto” non m’interessa. La letteratura, che io associo all’arte e non all’ambito intellettuale come per esempio la filosofia, è uno spazio di pura libertà. Per quanto mi riguarda, il criterio etico che guida l’uso delle parole non è la correctness o l’incorrectness bensì il vero o il falso. I personaggi che, nella loro umile misura, dovrebbero rappresentare l’umanità sono dilaniati e pieni di contraddizioni. È in questa tensione che gli uomini si dibattono, non all’interno di una virtù illusoria».

Riesce a farci sentire che nelle «chiacchiere» occasionali di ogni giorno c’è molta più verità di quella che affidiamo alle versioni ufficiali. Lei le fissa, forse proprio per dire: ecco che cosa riveliamo, di noi, semplicemente parlando. È così? 
«Quelle che lei chiama le versioni ufficiali sono una noia mortale. Anche quando (soprattutto, forse!) toccano i grandi temi. Ho sempre pensato che la vera natura delle relazioni umane stia nelle asperità della vita di tutti i giorni, nelle piccole incrinature, nelle piccole dissonanze, nulla di molto consistente in apparenza ma che la temporalità della scrittura permette di cogliere. A teatro, un attore può creare un mondo con una parola anodina. C’è così tanta ricchezza nel non-detto. Le “chiacchiere” aprono grandi spazi, se si è capaci di ascoltare al di là o al di qua delle parole».

Al centro del romanzo, c’è un viaggio che la famiglia di Serge, di origini ebraiche, fa ad Auschwitz. È l’occasione per guardarci da fuori nei panni di turisti «in tenuta semi-balneare» in un campo di concentramento. «Quando tornerai al sole, alla macchina, che cosa ti ricorderai? E se anche ti ricordassi?», lei scrive. La protesta dell’io narrante contro il «feticismo della memoria» lei la condivide? 
«Che cosa chiamiamo memoria? Nella mia accezione della parola, la sola memoria che possa avere delle conseguenze su una percezione del mondo o su altri comportamenti è una memoria che chiama in causa gli affetti. Non è una cosa che può essere imposta per decreto. Proprio come non si possono forzare i sentimenti, non si può forzare la natura della memoria. Il “dovere della memoria”, questa costante ingiunzione, è una formula vuota. Al massimo si potrebbe dire: il dovere della conoscenza. Ma quale parte di noi aspira a questa conoscenza? Il mio primo impulso era scrivere qualcosa che avesse a che fare con il turismo. E credo peraltro che sia un argomento importante del libro. La contemplazione del mondo in chiave turistica è l’essenza stessa della nostra epoca. Tutti quelli che, nel mondo, hanno avuto accesso a un certo tenore di vita sono turisti. Non ci si può escludere da questa categoria. Il turismo comprende anche chi si crede estraneo al fenomeno. Tutto si è adeguato alle esigenze di questa nuova umanità in cerca di sensazioni. I paesaggi, le usanze, il cibo, l’habitat, tutto. Tutto è un “sito”. Compresi i luoghi delle tragedie, il cui vantaggio è che sono luoghi in cui possiamo sentirci pieni di compassione, per così dire “al di sopra del male”».

«Il mondo per me resta un enigma», ha detto una volta. È ancora così? Scrive anche per questo? 
«Vedo la scrittura come uno stile di vita. Lo faccio perché mi diverte e perché ogni tanto credo di essere capace di farlo. È un tentativo di fissare alcune cose nel tempo. Non credo di aver capito meglio alcunché per il solo fatto di averne parlato. Tutto è sempre rimasto enigmatico ma sono felice di aver potuto talvolta stabilire i termini dell’enigma».

 
Drammaturga e scrittrice, attrice e sceneggiatrice: Yasmina Reza, 62 anni, ha pubblicato il suo primo romanzo Hammerklavier nel 1997. Quello nuovo s’intitola Serge.

Yasmine Reza presenterà il suo nuovo romanzo Serge ai lettori italiani il 16 marzo a Roma e il 17 a Napoli. In libreria dal 14 marzo, (Adelphi, pp. 186, 19 €).


(Vanity Fair, 16 marzo 2022)

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