VD 104: Un sì e tre no

Quello che vogliamo e quello che non vogliamo dalle elette.

Pensieri e proposte per tenere la rotta e non perderci di vista. Puntando in alto

 

di Lia Cigarini, Giordana Masotto, Lea Melandri

 

 

Dopo le elezioni del 24-25 febbraio 2013 (questo articolo è stato chiuso in redazione a campagna elettorale ancora in corso) ci saranno molte più donne in Parlamento e nelle Assemblee regionali interessate al voto. Alcune saranno lì come femministe. Molte altre ci arriveranno, pur con storie politiche diverse, sull’onda di un forte movimento delle donne che si è fatto sentire, imponendosi ai partiti.

Questo il dato di fatto. Perciò il punto politico al presente è: che relazione intendiamo costruire con loro? Ci interessa oppure no? Per noi la risposta è sì.

Ciò che vorremmo mantenere/costruire con le elette ci aspettiamo che sia all’altezza della radicalità del femminismo: pratica politica del partire da sé, relazioni tra soggetti, non rapporti strumentali.

Niente a che vedere, dunque, con la prassi ben nota, anche se in realtà raramente praticata, secondo la quale le elette relazionano al movimento da cui ottengono in cambio sostegno. Questo, in fondo, non sarebbe niente di più e di diverso da un mandato della rappresentanza gestito con trasparenza, cosa a cui, in effetti, siamo poco abituati. Vorremmo altro.

Vorremmo una pratica politica comune con le elette che avesse come oggetto e scopo creare una misura di giudizio autonoma e inedita, segnata dalla esperienza delle donne e dalle loro relazioni, sulla politica istituzionale e sulla democrazia oggi.

Sappiamo che non sarà facile. Sarà una relazione critica e tempestosa perché chiederemo alle elette molto sia in termini di pensiero che di gesti di rottura, di cambiamento. Specialmente rispetto alle femministe, entrerà in gioco il giudizio (che si è sempre espresso con reticenza nei gruppi femministi) al quale non si possono sottrarre perché hanno accettato il mandato, e di conseguenza la misura di giudizio maschile, consapevoli del rischio – o addirittura della certezza, per qualcuna – della neutralizzazione. Una bella contraddizione da affrontare.

Noi peraltro non vogliamo arrenderci a una sensazione di perdita, di sottrazione che pure sentiamo. E non ci ritroviamo neppure nell’eccitazione di chi pensa “finalmente, adesso sì che…”. Pensiamo che sia una sfida per tutte e proponiamo di raccoglierla insieme, elette e non. I temi da affrontare non sono da poco. Eccone alcuni, che vogliamo accennare partendo da alcuni no.

 

No a leggi “di genere” come facile e pericolosa scappatoia per sentirsi – sia le donne sia gli uomini – “dalla parte delle donne”. Il pensiero e la pratica delle donne hanno prodotto negli ultimi 40 anni elaborazioni ricchissime. Giuriste, filosofe, scienziate offrono spunti che non possono essere ignorati da chi fa leggi. E portano piuttosto a dire che: a) sulla sessualità non si legifera; b) le leggi antidiscriminatorie, notoriamente più amate da chi legifera che dalle donne stesse, hanno l’effetto pratico di imbrigliare e normalizzare l’attuale dinamismo culturale e sociale delle donne, che giustamente non amano essere trattate da deboli e vittime; c) la Costituzione ben usata permette comunque qualsiasi azione legale antidiscriminatoria.

Anche sulle azioni positive poi, abbiamo tutte le informazioni per esercitare un giudizio sottile e all’altezza della consapevolezza delle donne.

Chiediamo, invece, riflessione e lavoro politico comune sui temi cari alla nostra pratica politica. Le parlamentari, tra l’altro, sono in un luogo dove oggi quasi niente si decide: il potere si è dislocato dal parlamento al governo e dal governo nazionale ai vari poteri non trasparenti e che non passano attraverso il dispositivo del consenso elettorale. Il parlamento, in compenso, concede ai suoi abitanti tutto il tempo e gli strumenti (biblioteca, collaboratori, soldi ecc.) necessari alla riflessione e all’azione.

La voglia di essere nei luoghi in cui si decide si manifesta poi anche in altri modi. Molte donne vogliono governare. Avere in mano il potere positivo di fare. Questo desiderio si manifesta spesso, e ai nostri occhi più coerentemente, a livello delle amministrazioni locali (regionali). Anche sotto questo aspetto ci sembra il momento per mettere in discussione i luoghi comuni e le scorciatoie: certo che le donne sono spesso più competenti e meno corrotte! Ma oggi hanno anche la forza politica per non limitarsi ad essere “la brava amministratrice”. Per sottrarsi al santino della donna naturaliter moralizzatrice. Non essere l’eccezione femminile che con la sua inclusione “rinnova” una politica screditata, ma imporre un cambio di regole per tutti. Evitando il sottinteso slittamento dal politico al problem solving. E non consentendo l’operazione di impoverimento simbolico che riconosce le competenze femminili senza mettere in discussione l’ordine maschile costituito.

 

Non nascondersi che la posta in gioco oggi è il discorso sulla democrazia. Parlare di adeguamento e rilegittimazione della democrazia e della rappresentanza ci sembra francamente un grave errore di prospettiva. Possiamo oggi entrare nel discorso sulla democrazia come soggetti che sono già nel discorso pubblico e che agiscono già politica. Le donne non sono un problema di adeguamento della rappresentanza. Non ci interessa oggi una democrazia meno screditata, ci interessa che venga modificata sostanzialmente dall’affermarsi della libertà femminile, dalle trasformazioni nel concetto di cittadinanza, dal riconoscimento dei soggetti come interdipendenti. Nello stesso modo abbiamo cambiato il discorso sul lavoro: non più questione femminile, ma soggetti che illuminano tutta la scena del lavoro necessario per vivere, che mostrano ciò che tutti possono permettersi di non vedere.

Se non facciamo questo passaggio, anche il primum vivere si banalizza nella rivendicazione delle donne come portatrici di cura del vivere, invece che di un nuovo conflitto che riguarda il come e il dove vengono prese le decisioni che riguardano da vicino la vita di tutti noi.

A noi stanno a cuore temi e contraddizioni alte: la libertà delle donne (e degli uomini) non è riducibile alla democrazia che conosciamo, al sistema elettorale, alla dittatura della maggioranza e neppure ai diritti, alla politica dei partiti – che fin dagli anni ’70 hanno perso la capacità di intercettare le nuove soggettività – e degli stati esautorati. Bensì, pensiamo che la libertà possa essere affidata alla forza delle pratiche politiche di soggetti che si riconoscono interdipendenti.

Già più di 60 anni fa Hans Kelsen – sottolineando il tendenziale conflitto tra libertà e democrazia – aveva tentato di superarlo con il concetto di libertà democratica.

Oggi più che mai si apre un vuoto pratico-teorico enorme davanti a tutte e tutti.

Si chiede, perciò, soprattutto alle parlamentari femministe di tenere conto del livello alto della contraddizione e di non adeguarsi alle soluzioni fin qui proposte: democrazia partecipata, cittadinanza attiva, legami con il territorio e gli elettori, ecc. Ne hanno la capacità e la formazione. Possono, dal loro posto (parlamento) e dalla loro pratica femminista (di relazione), avere uno sguardo alto, raccontare le esperienze hanno acquisito in quel luogo: quali conflitti insorgono quando si ignorano le regole tradizionali del potere? Hanno la forza e il coraggio di contrastare la regola maschile? Che tipo di pratica di relazione intendono costruire?

 

Non cercare di andare avanti con lo sguardo rivolto all’indietro. Infine, in questo momento politico non ci si può affidare alla pura e semplice difesa della Costituzione, che è bella dal punto di vista sociale ma che non affronta affatto la libertà delle singole/i. Non a caso, è bene sottolinearlo, è stata scritta in un tempo nel quale le donne non avevano parola.

Ma soprattutto non si può affrontare la complessità del presente cercando di ricacciarlo a forza dentro uno schema concettuale pensato su una società e degli Stati profondamente diversi. Oggi ci sono molti movimenti che rivendicano la propria natura costituente: soggetti che si relazionano, che cooperano, che si autogovernano, come la politica dei beni comuni. Il femminismo è stato fin dall’origine, ed è, uno di questi. L’irruzione, infatti, delle donne nella politica con i loro desideri e bisogni ha fatto cadere la separazione tra privato e pubblico: la soggettività di chi parla in prima persona rispetto all’oggettivazione dei problemi; la singolarità rispetto alla identità di genere, di classe, ecc.

Aspettiamo quindi che le donne elette (senza escludere uomini, senza escludere le candidate non elette) rispondano affermativamente ai nostri inviti: non ci esoneriamo infatti dalla ricerca delle pratiche, delle idee e delle iniziative che possono realizzare quello che pretendiamo da loro. Da loro e da noi.

(Pubblicato in Via Dogana n. 104, marzo 2013, pp. 3-4)

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