VD 61: A COSTO DI NON CAPIRE

A COSTO DI NON CAPIRE

Riflessioni di un’occidentale in Africa

di Serena Sartori

 

Giusti dieci anni quest’anno. Era l’agosto del ’93 e sono andata in Burkina, anzi in Africa per la prima volta, grazie all’invito pressante di un grande amico africano: “Vedrai, la mia terra ha bisogno di te, di voi, del vostro lavoro, un bisogno al quale non puoi restare indifferente…” Malgrado la grande fiducia in lui, avevo preso quel viaggio come un’occasione di conoscenza, non diversamente dagli altri innumerevoli viaggi fatti nella mia vita di teatrante nomade, di ricercatrice. Il teatro che faccio, che insegno da tanti anni, che metto in scena, è un teatro d’incontro, tra persone, tra artisti, tra culture, tra differenze. Come potevo resistere alla proposta di Sotigui, che mi aveva preparato un piano di viaggio, le tappe, gli incontri, gli scambi, un viaggio attraverso i Kouyaté, la grande famiglia dei griot di tradizione? Certo, non avevo minimamente previsto che quel viaggio avrebbe cambiato radicalmente la mia vita di persona, di donna, d’artista.

L’impatto fu durissimo. Da una parte, la grande povertà, che però non mi era nuova dopo i viaggi in India, in Indonesia e nel Nord Africa. Dall’altra, una cultura dell’accoglienza mai incontrata prima, un’accoglienza che ti fa sentire “a casa”, che ti solleva da tutte le difficoltà di differenze, di lingua, di abitudini, di diplomazie, di strategie e tattiche d’incontro. Di colpo, da che sei sbarcata dall’aereo, chiunque incontri e ovunque lo incontri, è qualcuno che ignora laprivacy, anzi ti fa pensare che la disprezzi, qualcuno con il quale (la quale) puoi condividere chiacchiere, riflessioni cosmiche e politiche, racconti, pranzi dal piatto comune, lunghi tè pomeridiani nelle corti, una festa di matrimonio, un battesimo, dove sei trascinata a danzare per condividere la gioia dell’avvenimento, che non si comunica con formule verbali. Di colpo fai parte della “famiglia”, basta che tu lo voglia o, meglio, basta che superi la paura della promiscuità e della perdita di te.

Il primo viaggio mi provocò una crisi profondissima, una spaccatura dove ho vissuto tutta la difficoltà di abbattere le mie barriere, le mie angosce di donna occidentale e la mia stessa sistemazione del mondo, per sbattere con gli occhi e il cuore in una realtà le cui urgenze e le cui richieste sono enormi, tanto quanto l’accoglienza, appunto.

Mi colpirono fin da allora le grandi differenze tra uomini e donne, differenze totali, da subito appariscenti. Le donne è difficile incontrarle fuori dalle corti, a parte le poche intellettuali o artiste. Le donne “sono” la casa, sono mamandall’età della pubertà. Sono il mercato, sono il cibo, accucciate a terra a soffiare sul fuoco con enormi pentoloni a ribollire, sono il lavoro immane del giorno dopo giorno, sono la spina dorsale di quel corpo per il resto macilento e malato che è diventato l’Africa. Le donne sono corpi forti e presenti, sensuali, con aggrappati grappoli di bambini, sul dorso, alle gonne, al seno. È vero che, fuori dal suo regno tutto femminile, le donne sono considerate un soggetto scarsamente decisionale nella società africana, è vero che l’uomo africano, mediamente, delega alla donna ogni responsabilità fuorché quella del comando, ed è vero che spesso lui si crede signore e padrone di lei. Ma è anche vero che la donna africana non vede nell’uomo un modello da imitare, anzi potrei quasi dire che ne ha una specie di sopportazione superiore, andando incontro ad ogni sua necessità affettiva con un senso fortissimo di maternità e sorellanza.

Il risultato è assai difficile da interpretare alla luce del nostro schema occidentale. Quell’incredibile forza terrena, quell’assenza di vittimismo, quell’ironia sfrontata che fa rilucere di energia vitale gli occhi delle donne africane, non s’incontrano nella nostra dimensione di donne emancipate e moderne. E poco hanno a che fare con la rappresentazione corrente che ci facciamo di loro come vittime di un’oppressione. Penso a donne come Agnès, la mamma di un ragazzo morto a 27 anni, che era la luce dei suoi occhi (e in parte mio figlio adottivo, una luce anche per il mio cuore), sempre forte e ironica, anche quando le venivano le lacrime agli occhi. O come Christine, HIV sieropositiva a 25 anni per un matrimonio forzato con un vecchio, una donna splendente di carica vitale, che ha fondato l’associazione di sieropositivi a Bobo Dioulasso, ha adottato un bimbo abbandonato e travolge tutti nel suo ottimismo. O come Odile che ha deciso di non sposarsi e di non fare figli, per dedicarsi all’associazione Talents de femmes e alla presa di coscienza femminile mediante la scrittura e il teatro… Eccezioni? Parlo di donne che mi hanno colpito più di altre, certamente, e che ho conosciuto meglio, ma lemaman giovani e vecchie che incontro negli ormai frequentissimi soggiorni in Africa, mi stupiscono sempre nella loro dimensione trainante di forza. Mi ricordano una mia nonna, analfabeta e poverissima, che sapeva governare ogni decisione nella famiglia con ironia quasi crudele: sarebbe stato ben difficile inquadrarla nella dimensione dell’oppressa.

Sì, per noi è veramente difficile comprendere, la nostra è un’altra storia. Ma, proprio per questo, chi vuole entrare in relazione, deve rinunciare al ragionamento consequenziale cui siamo abituate, a costo di capire meno ancora.

La differenza lì è la loro forza e la loro debolezza.

Tanto è forte il cosmo femminile che spesso le donne preferiscono stare in quella loro autosufficienza, in quella loro complicità esclusiva, lasciando agli uomini un’illusione di comando.

La loro debolezza è non avere ancora la necessità collettiva di agire la differenza nel pubblico, nel sociale, non contribuendo, di conseguenza, a trasformare le ragioni di uno status che si va facendo sempre più estremo e sbilanciato…

Non invidio la donna africana, non vorrei e non potrei accettare le cose che lei accetta, ma non mi permetto di considerarla secondo i miei parametri: non potrei proprio. Sono sempre più convinta che noi non possiamo esserle da modello, così come penso che, coltivando lo scambio e l’apertura reciproca dei nostri differenti percorsi d’esperienza, le une alle altre possiamo essere fertili per una visione di donna viva e vitale. Una visione non schematica.

Della condizione delle donne si parla molto in Africa. Un numero enorme di ONG mondiali fanno progetti per la loro emancipazione, progetti contro i matrimoni forzati, contro l’escissione, contro il sopruso e l’esclusione dalla politica, per la creazione di lavoro femminile… Progetti dai quali spesso mi trovo a prendere le distanze per la loro visione manichea e in fondo arrogante e poco curiosa e indiscutibilmente eurocentrica. Una visione che finisce col fissare i ruoli e impoverire lo scambio.

Dove me lo hanno richiesto, collaboro a progetti che tendono a mostrare il valore delle donne per l’intera società africana: progetti teatrali, letterari, artistici. Ma quando ritorno qui e ne parlo, mi coglie come una sorta d’insofferente reticenza. Timore delle visioni troppo facili o proiettive verso una carica gioiosa ed erotica da noi in via d’estinzione, o di un altrettanto facile pietismo per la loro condizione di oppresse. Di fondo, mi ritrovo spesso davanti ad una fretta di far rientrare in questo o quello schema una realtà che, dopo dieci anni di frequentazione, continua a provocarmi riflessioni e domande. Cosciente di quanto il movimento delle donne mi abbia aiutato ad uscire dagli schemi fortissimi della società della mia adolescenza, mi chiedo spesso che cosa abbiamo perso, oltre a quello che abbiamo conquistato, e perché. Discutendo con le mie giovani allieve, mi chiedo che cosa abbia provocato, da noi, la crescente paura della maternità, il dichiarato rifiuto a prendersi cura d’altri, quasi una paura di perdere sé, e come sia nata questa fragilità che diventa patologia crescente che divora corpo e mente. Che cosa, se non l’interiorizzazione, malgrado tutto, di un modello faticosissimo e impossibile di “uguaglianza”.

E continuo ad elaborare il diverso impatto – che a me, che vivo nel teatro, arriva più attraverso il corpo e il comportamento, che non attraverso le dichiarazioni d’intenti – che provocano i nostri corpi sempre più fragili ed efebici, malgrado le grandi e irrinunciabili conquiste, rispetto a quei corpi forti, ridenti, danzanti e ironici di maman che attraversano difficoltà per noi oggi inaccettabili, e che continuano ad essere il cuore pulsante della società.

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