VD107: La conta dei salvati

di Anna Bravo


«Ho scelto di seguire la genealogia del sangue risparmiato», scrive la storica Anna Bravo in un libro che parte da un’idea straordinaria: parlare non di morti ma di vite salvate. Il libro s’intitola La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato (Laterza, 2013) e mostra «che “fare qualcosa” o non farlo dipende dai rapporti di forza ma quasi altrettanto dalla forza interiore, e che il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato» (p. 17). Per poterlo vedere, la storica si è sottratta al «vecchio automatismo che fa delle guerre qualcosa di simile ai buchi neri del cosmo, che attirano, assorbono, inghiottono quel che gli sta intorno – in questo caso il lavorio fatto di abboccamenti politico-diplomatici, azzardi, intrighi, compromessi, mediazioni, che precede e accompagna i conflitti. A volte si trama la guerra, a volte si trama la pace. […] Ancora oggi, molte tensioni inesplose, molte guerre rimaste locali, sono definite preludi o antefatti alla guerra “vera”, che così appare scritta nel destino» (pp. 3-4). Invece, «molte ricerche sulle resistenze civili e armate mostrano che fra il 1900 e il 2006 sono state le prime a ottenere più successi» sia nelle lotte interne antiregime sia in quelle contro l’occupazione o per l’autodeterminazione (p. 8).

Le storie narrate in questo libro sono state scelte perché «molto differenti per le caratteristiche e per l’attenzione storica e mediatica che hanno ottenuto (o non ottenuto)» e «perché mostrano che esistono modi per risparmiare il sangue praticabili anche da chi non ha potere, o ha un potere minimo, e, all’opposto, persino da chi ne ha tanto da rischiare di perdere il senso della realtà» (p. 16). «Molte e molti dei protagonisti riuniti qui sono rimasti anonimi. Le memorie di seconda e terza generazione aiutano, ma per risuscitare la forza di certi eventi bisognerà far entrare nel discorso storico i soggetti senza nome e probabilmente destinati a rimanere tali, che in genere compaiono solo nella fusione rivoltosa o dolente con altri corpi anonimi. “Consideriamo incompleta una storia che si è costituita sulle tracce non deperibili”, ha scritto Carla Lonzi a proposito della semi-cancellazione delle donne dalle memorie pubbliche; vale anche – un’altra analogia di rilievo – per molte e molti facitrici e facitori di pace» (p. 17).

Anche durante le guerre che non sono state sventate «si incontrano esempi di fraternità, senso dell’onore, autonomia di pensiero […] che aiutano a limitare la distruttività» (p. 37). Nel libro troviamo episodi noti della prima guerra mondiale come la tregua del primo Natale di guerra, decisa dai soldati stessi inglesi e tedeschi, e tanti altri meno noti della vita di trincea, perché «prima e dopo quel 25 dicembre 1914 non c’è il vuoto, c’è un tessuto a macchia di leopardo di accordi taciti, diversi per durata e obiettivi»: dalle tregue per il cibo («quando un gruppo della prima linea usciva per andare a prendere il rancio, dalla parte opposta non si sparava») a quelle per raccogliere i feriti, allo scambio di bigliettini tra trincee opposte… E «c’è la ritualizzazione della violenza, per risparmiare il sangue persino durante i combattimenti. […] A Verdun, un volontario tedesco riferisce che i francesi avevano l’ordine di bersagliarli con bombe a mano anche di notte, e di fatto le lanciavano, ma, come da accordi presi con compagni tedeschi, solo sulla destra e la sinistra della trincea». Tutto molto rischioso, va detto, perché «può bastare il sospetto o un episodio minore per deferire alla corte marziale» (pp. 45-47).

Durante le guerre balcaniche, che precedono di poco la prima guerra mondiale, due villaggi sono i protagonisti della storia che segue, narrata alle pp. 38-39:

Secondo tutti i resoconti, le guerre balcaniche sono un precipizio di spietatezza reciproca, in cui la norma era irrompere nei villaggi del «nemico», saccheggiarli e incendiarli, stuprare donne e bambine, torturare, uccidere.

Nessuno è esente. Non gli uomini della Lega balcanica, che lasciano dietro di sé cadaveri, rovine, e in qualche caso battesimi forzati a opera di preti ortodossi chiamati appositamente. Non gli ottomani che, salvo le conversioni, fanno lo stesso. L’alternarsi degli eserciti sul territorio dà spazio alle peggiori ritorsioni, in una pratica di «pulizia etnica» che spingerà molti a emigrare.

Ma ci sono due villaggi bulgari, uno a maggioranza cristiana, Derviche-Tepe, l’altro a maggioranza turco-musulmana, Khodjatli, dove le cose vanno diversamente. Durante la prima guerra (1912), mentre l’esercito bulgaro avanza, sessanta turchi chiedono protezione ai loro vicini cristiani. La ottengono, e al passaggio delle truppe restano indisturbati. Fra loro, un mercante di caffè che racconta ai delegati il seguito: «quando sono tornati i turchi, avevano l’ordine di non toccare il villaggio: ai contadini hanno detto: “Non abbiate paura, voi che avete salvato la nostra gente, abbiamo una lettera da Costantinopoli dove è scritto di lasciarvi in pace”». Evidentemente quei contadini turchi avevano fatto arrivare la notizia alla capitale.

(Via Dogana n. 107, dicembre 2013)

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