16 Gennaio 2013
il manifesto

A Macao, cooperazione e solidarietà sono l’alternativa al «grande evento» Expo

Roberto Ciccarelli

Il 30% lavora con la partita Iva e guadagna fino a 2mila euro al mese, ma altrettanti sono sotto la soglia di povertà. Concerti, fiere, esposizioni, saloni, festival. E l’Expo 2015. Milano è un grande cantiere che produce «grandi eventi» 24 ore su 24. Di questa macchina possente, dove solo il 10% dei contratti di lavoro sono a tempo indeterminato, mentre raddoppiano i contratti di collaborazione (da 6.660 ad agosto-settembre 2011 a 12.133 nel 2012) e cresce la disoccupazione dei neo-laureati (+4,1), l’autoinchiesta dei lavoratori dell’arte e dello spettacolo di Macao restituisce il clima della «rivoluzione antropologica»» che ha investito i lavoratori del terziario avanzato, e non solo sui settori dei media e della comunicazione, dell’arte o della cultura. E prospetta un’alternativa al pensiero manageriale basata sulla cooperazione, sul mutualismo e la riscoperta della solidarietà tra i soggetti forgiati dal modello di vita neoliberista: individualistico, corporativo e concorrenziale.
Nelle 75 interviste in profondità, corredate da proiezioni e grafici, che costituiscono il dossier di questa operazione a cuore aperto, praticata in corsa, mentre Macao lavora sulla sua utopia concreta nei locali dell’ex macello comunale in viale Molise 68, emerge un’immagine dei lavoratori dell’economia dell’immateriale molto distante da quella tradizionale del «precario». «Tra gli attivisti che dedicano alla costruzione di Macao fino a 34 ore di lavoro a settimana – afferma Emanuele – abbiamo riscontrato una forte polarizzazione. Di solito si pensa che le occupazioni siano costituite da un precariato che non arriva a metà del mese. Invece a Macao c’è un 30% che guadagna sui 2 mila euro al mese, sta sul mercato e lavora con la partita Iva, assumendosi i rischi di questa attività tra cui i costi d’impresa e il recupero dei crediti. E c’è un 30% che è sotto la soglia di povertà, guadagna 300 euro al mese». Rispetto al movimento degli «intermittenti dello spettacolo» francesi che ha avuto una certa influenza sulle occupazion di teatri, atelier e cinema (teatro Valle o Angelo Mai a Roma, La Balena di Napoli, il Sale a Venezia, i teatri siciliani occupati), Macao vanta una composizione molto più eterogenea. Tra gli attivisti ci sono cocopro (13,3%), chi lavora con la ritenuta d’acconto (6,7%) o la partita Iva (23%); i giovani tra i 20 e i 30 anni (12%) che lavorano nel bacino del lavoro sommerso dell’industria creativa come hostess o addetti ai catering degli «eventi»; i dipendenti a tempo indeterminato (18%), soci di cooperative o aziende individuali. Il 28% arriva a svolgere fino a tre attività diverse, facendo così l’esperienza di quello che gli esperti definiscono ««disallineamento» tra la formazione (oltre il 20% è laureato, il 13% ha un master) e le mansioni svolte. Secondo gli attivisti di Macao questa pluralità operosa non è più riducibile ad una categoria professionale (il «lavoro della conoscenza»), ad una sociale (il «precariato») e nemmeno alla pretesa universalità del lavoro intellettuale (il «lavoro culturale»). Per ritrovare il filo che unisce questa moltitudine, piccolo campione del Quinto Stato milanese, bisogna piuttosto parlare di «culture del lavoro» che si riconoscono in un’azione comune.
«Quella che Sergio Bologna ha definito “economia dell’evento” – continua Emanuele – mobilita molte più categorie di quelle che appartengono al lavoro cognitivo: c’è chi si occupa del trasporto, dell’allestimento, della costruzione di stand o impalcature, il lavoro intellettuale e quello esecutivo si scambiano i ruoli e spesso vengono svolti dalle stesse persone. C’è chi lavora in un bar, o fa il piastrellista, ma in realtà opera nel campo dell’arte o della cultura. Cè chi è laureato in beni culturali e fa il casting per la pubblicità, o chi lavora per Sky e cooperano con noi. Tutti operiamo nei flussi dell’industria creativa milanese e troviamo in Macao uno spazio per risemantizzare la propria vita, ricomporre una catena produttiva fuori dalla domanda e dall’offerta, fare esperienze di un’economia della condivisione dei saperi e anche delle spese». Spesso l’estrema duttilità, «multi-tasking» o ««riciclo di se stessi», spinge a smarrire la differenza tra il tempo di vita e quello del lavoro. Gli attivisti di Macao lavorano (o cercano lavoro) 29,3 giorni al mese, cioè sempre. Quello che sorprende è che, nonostante tutto, il 77% dice di difendersi dall’invasività di un lavoro che sbrana l’esistenza, e la psiche. «Macao è il nome comune di chi si sottrae al modello manageriale di ottimizzazione della produzione che ha devastato la cultura italiana negli ultimi 30 anni – afferma Paolo – La forte discontinuità che esso rappresenta rispetto all’auto-organizzazione tradizionale è che qui la produzione di segni è immediatamente mobilitazione politica. Non c’è da una parte la produzione di segni e dall’altra parte la mobilitazione politica. Questo segna la riscoperta dell’agire in comune e del lavoro in relazione a cui invitava Lia Cigarini già negli anni Novanta. La forte partecipazione delle donne in Macao è stata determinante per comprendere che oggi la qualità del lavoro sta nell’aumentare la qualità delle relazioni, non ill risultato, come dice il pensiero manageriale».

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